Qualche giorno fa il canale in lingua russa Vot Tak*, parte dell’emittente di stato polacca TVP che gestisce oltre ventuno canali televisivi, ha pubblicato una “inchiesta” sulla cosiddetta “propaganda russa in Italia”. In quella pubblicazione sono stato accusato di fabbricare notizie false e il mio canale Telegram, aperto il 2 novembre 2022 dopo la censura di YouTube, è stato definito un “progetto propagandistico di Mosca”.
Ancora una volta mi si accusa senza nemmeno la cortesia professionale di contattarmi prima. Ho quindi deciso di inviare una replica al canale. In risposta, mi è stata mandata una email in cui, con apparente cortesia, si affermava di aver già scritto all’Ordine dei Giornalisti e di voler presentare una richiesta al Ministero dell’Interno italiano per valutare un’eventuale applicazione dell’articolo 414 del Codice Penale (“apologia di reato”) al mio lavoro. Nella stessa email mi veniva proposta la possibilità di rispondere a otto domande.
Vista l’elevata probabilità di manipolazione delle risposte e la mia contrarietà a liquidare la questione con silenzi o frasi brevi, ho scelto di rispondere pubblicamente, così da ridurre al minimo ogni rischio di distorsione.
Gentile redazione,
ho ricevuto la vostra email e vi ringrazio per l’opportunità di chiarire la mia posizione.
Trovo singolare che abbiate annunciato l’intenzione di contattare l’Ordine dei Giornalisti e il Ministero dell’Interno, citando persino l’articolo 414 del Codice Penale. Questo fa sorgere dubbi sul reale intento della vostra inchiesta: aprire un confronto o predisporre un’accusa.
L’Ordine dei Giornalisti ha recentemente accolto la mia domanda di iscrizione, verificando che soddisfo tutti i requisiti previsti dalla legge italiana: pubblicazione continuativa negli ultimi due anni di almeno cinquanta contenuti audio-video, verifica delle fatture emesse e dei pagamenti ricevuti dalle testate con cui ho collaborato. Il mio status professionale è pienamente conforme alla normativa vigente.
Risponderò a tutte le vostre domande. Il mio lavoro si fonda su indipendenza, libertà di espressione e pluralismo dell’informazione, valori oggi spesso minacciati proprio da chi afferma di difendere la democrazia.
Invito i lettori a giudicare il mio operato sui fatti, sulle fonti e sul contesto, non su etichette ideologiche o pressioni geopolitiche.
D: Lei lavora per International Reporters, che sarebbe finanziata da ANO Dialog Regions, organizzazione sotto controllo delle autorità russe e soggetta a sanzioni. Ritiene che il suo lavoro sia indipendente dal governo russo?
R: International Reporters non è stata fondata da ANO Dialog, ma da Christelle Neant e Viktoria Smorodina. Il nucleo originario del progetto è legato all’esperienza di Donbass Insider, una piccola agenzia indipendente fondata da Neant dopo il suo arrivo nel Donbass. Io non facevo parte di quella redazione e mi sono unito al progetto International Reporters successivamente, perché credo sia importante lavorare con colleghi internazionali, per poter scambiare prospettive grazie a sensibilità diverse su questioni complesse.
Siamo un organo di informazione ufficialmente riconosciuto dallo Stato russo, ma non siamo controllati da alcuna autorità governativa. La nostra linea editoriale è autonoma; non riceviamo istruzioni né direttive politiche. Il nostro lavoro va ben oltre la Russia: personalmente, per International Reporters, ho prodotto reportage e materiali giornalistici dalla Siria, Libano, Bielorussia, Venezuela, Georgia e Armenia.
Per quanto riguarda un possibile finanziamento statale, è estremamente importante distinguere tra sostegno economico e controllo editoriale. In tutto il mondo i media possono ricevere fondi pubblici senza perdere la propria indipendenza: in Italia, ad esempio, i principali quotidiani ricevono sussidi statali per l’attività editoriale. In Ucraina, The Kyiv Independent ha ricevuto finanziamenti sia da USAID che dal governo ucraino, e tuttavia nessuno si affretta ad etichettarlo automaticamente come organo di propaganda statale.
Nel vostro articolo affermate che International Reporters abbia ricevuto un “grant diretto” dal Ministero dello Sviluppo Digitale, ma questa è in realtà una distorsione dei fatti. Nella Federazione Russa tutti i media possono partecipare, in condizioni di parità, a bandi per ottenere misure di sostegno — ossia un sussidio per il rimborso delle spese di funzionamento della redazione, e non un “grant diretto” come voi scrivete.
Ribadisco: tutti i media, a parità di condizioni e su base competitiva, possono ricevere un sussidio, indipendentemente dalla tematica delle pubblicazioni e dalle opinioni dei singoli giornalisti. Pertanto, il fatto di aver ricevuto un sussidio non rende International Reporters, né alcun altro media beneficiario, un megafono del governo russo. Il nostro lavoro giornalistico è indipendente, internazionale e orientato al pluralismo delle voci.
D: Nel suo canale Lei riporta spesso vittime civili causate da droni ucraini, ma non parla mai di civili morti in Ucraina per attacchi russi. Considera questo giornalismo obiettivo?
R: Il mio lavoro si svolge nella parte russa del conflitto, in particolare nella regione del Donbass, dove vivo e racconto la realtà quotidiana. Per me è fondamentale documentare ciò che vedo con i miei occhi e offrire ai lettori una prospettiva spesso ignorata dai media internazionali. Sono di base a Lugansk, una città che ha sopportato otto anni di guerra prima che il mondo iniziasse a prestare attenzione a ciò che stava accadendo. Molti giornalisti hanno scoperto il Donbass solo nel 2022, mentre io ho iniziato a seguire questa regione già nel 2015, quando ero ancora studente universitario e mi occupavo dei volontari stranieri nelle Waffen-SS e del collaborazionismo nell’area sovietica.
In ogni guerra, sono i civili a pagare il prezzo più alto. I civili non hanno bandiera, così come i feriti, gli anziani, i bambini e chiunque si trovi in condizione di vulnerabilità non dovrebbe essere definito in base a schieramenti politici.
Se mi concentro sulle perdite civili dalla parte russa, è perché i media mainstream occidentali tendono a riportare quasi esclusivamente le vittime in territorio ucraino, ignorando sistematicamente ciò che accade dall’altra parte del fronte. Offrire una narrazione complementare non è faziosità, è un contributo al pluralismo dell’informazione.
Un esempio emblematico di questa distorsione è il quotidiano italiano La Stampa, che ha recentemente riportato un attacco ucraino con droni sulla città russa di Voronezh con il titolo: “Ucraina: nuovo attacco russo con droni su Voronezh, colpito un asilo”, attribuendo erroneamente l’attacco alla Russia stessa. Questo tipo di errore dimostra quanto poco si sappia, o quanto poco interesse ci sia, nel raccontare cosa succede dal lato russo del conflitto.
D: Ritiene che l’esercito russo abbia commesso crimini di guerra? Perché non ne parla nei suoi canali?
R: Negli ultimi mesi si è parlato sempre più di crimini di guerra, sia in relazione al conflitto in Ucraina che a quello a Gaza. È una questione complessa, perché purtroppo, nelle guerre su larga scala, le violazioni tendono a verificarsi quasi sistematicamente, poiché gli eserciti sono organizzazioni di massa composte da individui.
A mio avviso, la questione fondamentale non è se avvengano episodi isolati (purtroppo avvengono in ogni guerra) ma se tali violazioni vengano punite, tollerate o addirittura incoraggiate. Nel caso dell’esercito russo, tale responsabilità ricade sulla polizia militare. Personalmente, ho raccolto diverse testimonianze sul campo riguardo al lavoro di controllo esercitato da queste unità. Alcuni soldati mi hanno raccontato il livello di attenzione a cui sono sottoposti. Uno di loro, per esempio, mi ha detto che una pattuglia della polizia militare si era presentata alla loro unità perché avevano preso delle sedie da un cortile, sedie che sembravano abbandonate. Nonostante l’apparente banalità dell’atto, è stata immediatamente aperta un’indagine.
Io stesso ho girato un breve reportage a Lugansk sul ruolo della polizia militare durante il coprifuoco. Ho potuto constatare di persona che l’applicazione delle regole è un elemento centrale sia nella narrativa ufficiale russa, sia nelle procedure interne.
Vorrei dire anche una parola sul doppio standard occidentale in materia di crimini di guerra. Sembra esserci un’ossessione mediatica per i presunti crimini russi, mentre le accuse rivolte ad altri (per esempio all’Ucraina) vengono spesso ignorate, minimizzate o liquidate. Un esempio clamoroso è quello di Jen Psaki, allora portavoce della Casa Bianca, che nel 2022 dichiarò che l’uso di munizioni a grappolo poteva costituire un crimine di guerra. Poco più di un anno dopo, la stessa amministrazione USA ha iniziato a fornire proprio quel tipo di munizioni, persino quelle obsolete, alle forze ucraine.
Non sto dicendo che alcuni siano i “buoni” e altri i “cattivi”. Sto dicendo che, se vogliamo davvero parlare di crimini di guerra, dobbiamo farlo con coerenza e rigore, a 360 gradi. Altrimenti, diventa solo un altro strumento retorico al servizio di una narrativa politica.
D: Lei afferma che gli obiettivi della Russia nella guerra siano la protezione dei civili, la “denazificazione” e la sicurezza. Tuttavia, secondo la Commissione ONU per i Diritti Umani, dal 2014 al 31 dicembre 2021 nel Donbass sono stati uccisi 3.404 civili, oltre 7.000 feriti, e dal 2019 il numero annuale di morti non ha superato i 27. Dall’inizio dell’invasione su larga scala, milioni di ucraini hanno perso la casa, intere città sono state distrutte, decine di migliaia di civili uccisi e la Russia ha perso centinaia di migliaia di soldati. Perché non tiene conto di queste cifre nella sua valutazione?
R: Ho studiato in Germania, all’Università di Bielefeld, dove ho conseguito un Master of Arts in Scienze Storiche. Nei circoli accademici tedeschi, è emerso il termine Russlandversteher per descrivere chi cerca di comprendere il punto di vista russo. Mi riconosco in questa definizione, perché credo che ogni conflitto debba essere analizzato da entrambi i lati, se vogliamo davvero capire la realtà.
Il conflitto in Donbass non è iniziato il 24 febbraio 2022. Va avanti dal 2014. Per milioni di persone che vivono in questa regione, la guerra è iniziata ben prima dell’intervento diretto della Russia. Tra il 2014 e il 2022, oltre 3000 civili sono morti nei territori separatisti, e per molti anni né i media né le istituzioni internazionali hanno prestato attenzione a questa tragedia. La consapevolezza globale è sorta solo quando la Russia è intervenuta direttamente.
Da quando sono arrivato nel Donbass, ho incontrato bambini che non hanno mai conosciuto un solo giorno senza guerra, e giovani cresciuti con coprifuoco, mine, droni e bombardamenti. Sono loro a desiderare la pace più di chiunque altro. Quando sono arrivato, ciò che mi ha colpito di più è stata la voglia della gente di parlare, di essere ascoltata, di chiedere a me, questo straniero, di portare le loro voci in Occidente, dove sembrava che a nessuno importasse che esistessero.
Spero sinceramente che questa guerra finisca il prima possibile, perché la pace è l’unica vera vittoria. Ma per capire le radici profonde di questo conflitto, dobbiamo anche considerare la geopolitica. Piaccia o no, la Russia sta difendendo ciò che percepisce come interessi vitali ai propri confini. Questo non è una giustificazione assoluta, ma solleva una domanda seria: in cosa differisce fondamentalmente dalle operazioni militari compiute dagli Stati Uniti e dai loro alleati in Iraq, Libia o Serbia, tutte a migliaia di chilometri dal loro territorio?
D: Lei sostiene di lavorare liberamente in Russia, mentre in Italia i giornalisti sarebbero oppressi. Tuttavia, molti giornalisti di media indipendenti russi sono stati costretti a lasciare il Paese, testate sono state dichiarate “agenti stranieri” o “organizzazioni indesiderate” e alcuni giornalisti perseguiti. Perché non menziona questi fatti quando afferma che in Russia non c’è censura?
R: Confermo che in Russia ho sempre potuto lavorare liberamente, senza alcun controllo editoriale sul mio operato. Nessuno mi ha mai detto cosa scrivere, cosa pubblicare o quali temi evitare. Parlo ogni giorno con persone comuni, funzionari, militari, senza pressioni né restrizioni. Questo è un dato di fatto che riguarda la mia esperienza personale.
In Italia, invece, ho visto ostacoli molto concreti per chi prova a raccontare prospettive alternative rispetto alla narrazione dominante. Non si tratta di repressione esplicita, ma di un sistema sottile fatto di esclusioni, delegittimazioni e campagne di discredito. Un esempio emblematico è il caso della funzionaria ONU Francesca Albanese. Per le sue posizioni critiche sul conflitto israelo-palestinese, viene sistematicamente attaccata da politici, attivisti e governi che ne chiedono la rimozione. Questo dimostra che anche in Occidente si difendono con forza gli interessi geopolitici, anche a scapito del pluralismo.
Non ho mai affermato che in Russia non esistano limitazioni. Ho semplicemente detto che, per quanto riguarda me, non ho mai subito pressioni. Come ha dichiarato lo stesso portavoce del Cremlino, Dmitrij Peskov, la Russia sta attraversando un periodo eccezionale, che comporta misure particolari. È una realtà che si osserva anche in altri Paesi coinvolti direttamente in un conflitto. In Ucraina, ad esempio, sarebbe oggi possibile per un media pubblicare un articolo che condanni apertamente l’operato dell’esercito ucraino? La risposta è evidente.
Inoltre, vale la pena ricordare che in Russia operano tuttora diversi corrispondenti stranieri regolarmente accreditati. È il caso, ad esempio, di Rosalba Castelletti, corrispondente de La Repubblica, nota in Italia per le sue forti critiche alla politica russa. Nonostante ciò, continua a lavorare e a vivere in Russia, a testimonianza del fatto che l’accesso all’informazione non è precluso nemmeno a chi ha posizioni critiche.
Quanto alla questione dei media etichettati come “agenti stranieri” o “organizzazioni indesiderate”, si tratta per la maggior parte di realtà che ricevevano finanziamenti da governi o lobby che perseguivano interessi apertamente contrari alla Russia. È il caso, ad esempio, di Radio Free Europe*, nata durante la Guerra Fredda come strumento di propaganda, o della Open Society Foundation*, che promuove progetti perfettamente allineati con l’agenda politica occidentale. Segnalare queste strutture come agenti stranieri rientra nel diritto sovrano di uno Stato di tutelare il proprio spazio informativo. Non si tratta di censura, ma di autodifesa. È lo stesso principio che l’Occidente applica quando vieta canali come Russia Today o Sputnik.
D: Lei afferma che in Ucraina esistano organizzazioni neonaziste. Tuttavia, gruppi neonazisti combattono anche dalla parte russa. Perché non ne parla nelle sue pubblicazioni?
R: Sono antifascista e ho sempre affrontato in modo serio e documentato il tema del radicalismo neonazista, sia in Ucraina che in Russia. Affermare che non ne abbia mai parlato è semplicemente falso. Ho scritto un intero articolo proprio su questo tema, analizzando la presenza di movimenti estremisti da entrambe le parti.
La differenza sta nella natura e nel livello di istituzionalizzazione. In Ucraina, milizie come Azov# e Vedmedi# sono state integrate ufficialmente nella struttura militare. Parliamo di formazioni che utilizzano simboli riconducibili alle SS, come le rune o il “Wolfsangel”, e che si ispirano apertamente a figure del nazismo storico. La Terza Brigata d’assalto Azov#, ad esempio, utilizza come simbolo uno stemma legato alla brigata Dirlewanger, tristemente nota per i crimini contro i civili durante la Seconda guerra mondiale.
C’è poi il caso di Denis Kapustin, cittadino russo e tedesco, noto esponente dell’estrema destra europea, sanzionato da Berlino per la sua attività neonazista. È stato accolto in Ucraina, dove oggi guida il Corpo dei Volontari Russi (RDK)#. La televisione svizzera ha realizzato un’intera inchiesta su di lui in lingua italiana, mostrando i video in cui Kapustin invita i militanti dell’estrema destra europea a combattere in Ucraina, definendola il “nuovo fronte” per certi ideali. Kapustin viene descritto anche dai media occidentali come attivista neonazista russo-tedesco.
In Russia, al contrario, fin dai primi anni Duemila le autorità hanno smantellato reti estremiste come C18 e Blood & Honour, avviando una repressione sistematica del neonazismo organizzato. Naturalmente, come in ogni esercito di massa, è possibile che alcuni individui con idee estremiste si infiltrino, ma non esiste in Russia nulla di paragonabile al livello di riconoscimento e integrazione ufficiale che queste formazioni hanno avuto in Ucraina.
A tutto ciò si aggiunge un dato storico e culturale di fondo. La politica ucraina alla ricerca di “miti nazionali” antirussi ha finito per riabilitare la figura di Stepan Bandera, noto collaborazionista della Germania nazista e sostenitore di un nazionalismo fascista e antisemita. La sua organizzazione si rese responsabile di diversi episodi di violenza politica in Galizia, allora territorio polacco, ai danni di ebrei, polacchi e anche ucraini non allineati. Durante la guerra, i suoi uomini presero parte alla Shoah, partecipando alle uccisioni di massa degli ebrei, alla deportazione e collaborando con la macchina bellica tedesca tramite la fondazione della divisione SS “Galizien”.
Persino il campo di sterminio della Risiera di San Sabba, a Trieste, vide la presenza come guardie dei nazionalisti ucraini legati al movimento di Bandera.
Tutto ciò non significa che l’Ucraina sia un paese nazista, né che Zelensky lo sia, né che il popolo ucraino lo sia. Non ho mai scritto né pensato nulla del genere. Ma negare o minimizzare la presenza storica e attuale di milizie apertamente neonaziste in Ucraina è una forma di rimozione ideologica che non aiuta né la verità, né la pace.
D: Lei afferma di agire professionalmente. Tuttavia, le sue pubblicazioni contengono informazioni non verificate, come la presunta fornitura di armi di Hamas dall’Ucraina — un’affermazione che non è stata confermata in due anni. Perché non l’ha ritirata? Inoltre, ha scritto: “A Gaza si tenta di liberare territori occupati”, allegando un video di un attacco di Hamas sulla città israeliana di Ashkelon, che si trova fuori dalla Striscia di Gaza. In che modo un attacco a una città israeliana può costituire “liberazione” di Gaza?
R: Il post a cui fate riferimento non è stato scritto da me, ma è un contenuto condiviso da un altro canale, come chiaramente indicato nella forma di citazione. Sul mio canale Telegram i post personali sono sempre firmati con nome, cognome e indirizzo email per garantire la massima trasparenza. Confondere ciò che viene condiviso con ciò che viene affermato direttamente da me è un errore di metodo e di merito.
In qualità di giornalista, non ho mai appoggiato né gioito per attacchi contro i civili, di qualunque nazionalità o provenienza.
Per quanto riguarda la questione palestinese, la mia posizione è chiara: credo che israeliani e palestinesi debbano trovare un modo per coesistere in pace, nel rispetto dei diritti e della sicurezza di entrambi i popoli. Questo include necessariamente la fine dell’occupazione e delle politiche di apartheid e colonizzazione, come riconosciuto da numerosi organismi internazionali e relatori indipendenti.
Riguardo al termine “liberazione di Gaza”, oggi sono l’IDF e il governo israeliano a parlare apertamente di voler “liberare Gaza”. Lo stesso governo israeliano ha iniziato a usare il termine “occupazione militare”, senza generare scandalo tra i governi occidentali amici di Israele. Al momento, non mi risulta alcuna sanzione europea contro Israele.
D: Collaborando con media italiani mentre vive in Russia, Lei svolge un’attività pubblica che influenza la politica statale o forma l’opinione pubblica, ricevendo compensi dall’estero. Questo rientra nei criteri per essere riconosciuto in Russia come “agente straniero”. Ha fatto richiesta al Ministero della Giustizia per ottenere questo status, come previsto dalla legge? Ritiene questo status discriminatorio?
R: Ho fatto tutto quello che la legge richiede e, per quanto a mia conoscenza, non sono stato dichiarato agente straniero. Collaboro come freelance con alcuni media occidentali, ma non ricevo alcuna forma di supporto finanziario da partiti, governi o associazioni politiche.
Ritengo che sia corretto che chi riceve supporto finanziario da governi o organizzazioni politiche lo dichiari, o venga obbligato dalla legge a dichiararlo, per trasparenza verso chi legge. Anche gli Stati Uniti hanno una legislazione simile.
Del resto, non mi risulta che i corrispondenti di testate come La Stampa, La Repubblica, ANSA o RAI, residenti in Russia con diversi titoli di soggiorno e che lavorano per media occidentali, anche apertamente critici verso il Cremlino come The Moscow Times*, siano stati dichiarati agenti stranieri.
Cordialmente,
Andrea Lucidi
*Organizzazioni dichiarate agenti stranieri e indesiderate
#Organizzazioni estremiste vietate nella Federazione Russa