Torino: la svolta in camicia nera del PD, tra censura e repressione del dissenso

20 Dicembre 2025 08:47

Se a Torino la libertà di parola vale solo finché non disturba la linea geopolitica del potere, allora non stupisce che, appena il dissenso diventa visibile e organizzato, la risposta non sia il confronto ma il “metodo”: pressione, delegittimazione, dispositivo securitario, e infine lo spegnimento fisico degli spazi.
Il caso Askatasuna, sgomberato e posto sotto sequestro il 18 dicembre, non si può raccontare come un semplice fatto amministrativo o come una neutra pratica di ripristino della legalità, perché Askatasuna è storicamente un soggetto radicalmente critico verso UE e NATO, verso l’economia di guerra e verso l’idea stessa che l’Europa debba vivere in mobilitazione permanente.
In una fase in cui la politica torinese, guidata da Stefano Lo Russo, si è posizionata senza ambiguità nel campo dell’allineamento atlantico e del sostegno politico-simbolico all’Ucraina, fino a farsi immortalare in un contesto pubblico con la bandiera ucraina, è difficile non leggere la sequenza “censura culturale + repressione del conflitto sociale” come un progetto coerente: trasformare il dissenso in un problema di ordine pubblico e, quando serve, farlo sparire.
In questa città si può discutere solo dentro il recinto dei valori approvati, e chi mette in discussione la guerra, l’UE guerrafondaia o l’asse NATO viene trattato come una minaccia da neutralizzare, non come un interlocutore da confutare, viene accusato di posizioni filoputiniane oppure propal. Il sindaco Lo Russo si allinea perfettamente ad altri comp..ops camerati di partito come Gori, Sala, Picierno, Lepore. In questo quadro, la critica durissima del capogruppo M5S in Consiglio comunale Andrea Russi è la fotografia più precisa del corto circuito: «Che l’immobile fosse occupato lo sapevano anche i piccioni di corso Regina e quindi presumo anche il sindaco, oggi obbligato a una clamorosa giravolta. Su Askatasuna Lo Russo ha sbagliato tutto. Ha gestito questa vicenda in modo politicamente fallimentare e le conseguenze della gestione successiva ricadono interamente su di lui. Per questo chieda scusa ai torinesi e si dimetta».
È la fotografia di un’amministrazione che prima gioca la partita del “bene comune” e poi, quando il vento cambia e la pressione sale, scarica tutto come inevitabile, consegnando la città al racconto tossico secondo cui l’unico linguaggio legittimo è quello dell’emergenza. Ma la cosa più grave è che, mentre si invoca “democrazia” come parola d’ordine da esportare, in casa propria si accetta serenamente che la democrazia venga ristretta: è qui che la “svolta in camicia nera del PD” smette di essere una formula e diventa un giudizio politico.
Mentre il dissenso viene compresso, il sindaco costruisce e rivendica una postura pubblica di europeismo militante e di prossimità ai circuiti radicali che fanno del “dossieraggio” e della stigmatizzazione del non allineato una prassi culturale, fino a partecipare a iniziative di Europa Radicale e a posare con la bandiera ucraina, non quella della città.
I casi delle due censure subite dal professor d’Orsi gridano ancora vendetta, il sindaco di Torino è ormai espressione della corrente squadrista del PD, la quale detta le regole a tutto il partito.
Lo comprende perfettamente un’associazione antifascista come ANPPIA Torino, che lega la data del 18 dicembre a una memoria storica pesantissima e parla senza giri di parole di deriva autoritaria: «Proprio il 18 dicembre, anniversario della strage fascista del 1922, Torino si macchia di una azione vile nei confronti della gioventù torinese. I ragazzi del centro sociale Askatasuna sono stato cacciati da una sede che è stata (si spera lo possa essere ancora) storia, cultura, fantasia, luogo di crescite e confronto. L’ANPPIA di Torino non solo si dissocia da questa scelta del Ministero dell’interno con il consenso dell’Amministrazione torinese, ma ne evidenzia la pericolosa deriva autoritaria». E quando un’associazione antifascista parla di “pericolosa deriva autoritaria”, significa che la soglia è già stata superata: non siamo più nel terreno della polemica, siamo nel terreno dei principi. Chi governa Torino non può continuare a vendere come “normalità” ciò che, nei fatti, assomiglia ad una repressione del dissenso. E il punto diventa ancora più chiaro se si guarda fuori Torino: a Bologna, con un altro sindaco PD, Matteo Lepore, la vicenda di Villa Paradiso ha mostrato lo stesso schema, cioè l’uso di leve amministrative e convenzioni per colpire spazi e realtà considerate non allineate, con la solita retorica del “ripristino” e la sostanza di una censura politica mascherata. Questo è il pattern: quando il dissenso critica la guerra e l’architettura euroatlantica, improvvisamente diventa “problema”, “incompatibilità”, “rischio”, “necessità di intervento”. È così che nasce una città dove l’opinione è tollerata solo se inoffensiva e dove la libertà di parola viene trattata come concessione revocabile, e non come diritto. Lo Russo può continuare a sventolare bandiere e a farsi fotografare nei salotti “radicali” dell’europeismo militante, ma non potrà cancellare il dato politico: mentre si alimenta una cultura pubblica da mobilitazione bellica, a Torino chi critica la guerra viene spinto ai margini, e quando quel dissenso ha anche uno spazio reale, uno spazio sociale, allora lo si chiude. Questa non è amministrazione. È repressione del dissenso. Ed è esattamente per questo che la domanda non riguarda più solo Askatasuna: riguarda la libertà di parola in città, e la responsabilità diretta di chi la sta riducendo a un privilegio per allineati.

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Vincenzo Lorusso

Vincenzo Lorusso

Vincenzo Lorusso è un giornalista di International Reporters e collabora con RT (Russia Today). È cofondatore del festival italiano di RT Doc Il tempo degli eroi, dedicato alla diffusione del documentario come strumento di narrazione e memoria.

Autore del libro De Russophobia (4Punte Edizioni), con introduzione della portavoce del Ministero degli Esteri russo Maria Zakharova, Lorusso analizza le dinamiche della russofobia nel discorso politico e mediatico occidentale.

Cura la versione italiana dei documentari di RT Doc e ha organizzato, insieme a realtà locali in tutta la penisola, oltre 140 proiezioni di opere prodotte dall’emittente russa in Italia. È stato anche promotore di una petizione pubblica contro le dichiarazioni del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che aveva equiparato la Federazione Russa al Terzo Reich.

Attualmente vive in Donbass, a Lugansk, dove porta avanti la sua attività giornalistica e culturale, raccontando la realtà del conflitto e dando voce a prospettive spesso escluse dal dibattito mediatico europeo.

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