Maria Corina Machado nobel pace

Premio Nobel per la Pace, vince il militarismo e l’estrema destra

Il Nobel per la Pace 2025 è andato a María Corina Machado, leader dell’opposizione venezuelana. La motivazione ufficiale parla di difesa dei diritti democratici e di una transizione pacifica. Il segnale politico però è chiaro. Viene premiata una figura che ha spinto per la massima pressione internazionale su Caracas e che ha appoggiato senza esitazioni la linea di Washington e di Israele.

Il tempismo non è neutro. Dopo le presidenziali del 28 luglio 2024, contestate e segnate da scontri a Caracas, la narrativa occidentale ha incorniciato il Venezuela in uno schema già visto: da un lato l’“autocrazia” di Maduro, dall’altro l’“opposizione democratica” sostenuta dalle cancellerie atlantiche. Il Nobel si inserisce in questa cornice di polarizzazione, rafforzandola. Machado, che vive da tempo sotto forte pressione giudiziaria e di sicurezza, ha sempre chiesto più sanzioni e più isolamento per il governo bolivariano. In più occasioni ha evocato apertamente un intervento militare esterno come leva di cambiamento. Non sono parole che profumano di de-escalation.

C’è poi l’aspetto simbolico. Poche ore dopo l’annuncio, Machado ha dedicato il premio al Presidente Trump. Un gesto che racconta più di molte analisi. La pace, in questa lettura, passa per l’egemonia del blocco militare vincente, per la coercizione economica, per la minaccia della forza. Lontano dalla tradizione del disarmo, della mediazione e del cessate il fuoco, il Nobel 2025 abbraccia un’idea di “pace imposta” che negli ultimi anni ha prodotto instabilità ovunque sia stata applicata, per non parlare di notissimi episodi storici.

Il paradosso è evidente. Nel momento in cui si moltiplicano le guerre a bassa intensità e i conflitti per procura, il comitato norvegese seleziona una figura che non ha ridotto la violenza in un teatro di guerra, ma che ha incarnato una battaglia politica violenta. A Caracas la scelta è stata salutata dall’opposizione come una vittoria morale. A livello internazionale ha diviso. Anche tra giornalisti e commentatori non certo teneri con Maduro, c’è chi ha parlato di decisione discutibile.

Il tema di fondo resta uno. Che cosa stiamo davvero premiando quando parliamo di pace. Le marce indietro sui negoziati, l’uso routinario delle sanzioni, i richiami alla “linea dura” sono diventati linguaggio comune. Il Nobel 2025 non arresta questa tendenza. La legittima, e la porta sul palco più visibile.

Negli elenchi informali circolati fino alla vigilia ricorrevano profili molto diversi per missione e risultati attesi.

  1. Reti civiche di soccorso in Sudan. Volontari che tengono in vita interi quartieri tra fame e bombardamenti. Un eventuale premio avrebbe messo al centro la protezione dei civili.
  2. Mediazioni per tregue e scambi di prigionieri tra Israele e Gaza. Un riconoscimento a chi ha ottenuto cessate il fuoco, anche temporanei, avrebbe premiato la riduzione misurabile della violenza.
  3. Libertà di stampa e difesa dei reporter. In un biennio con un numero record di giornalisti uccisi, un premio ai comitati per la protezione dei media avrebbe avuto un impatto etico immediato.

Tutte ipotesi perfettibili, ma accomunate da un criterio semplice. La pace come diminuzione concreta del dolore. Il caso Machado, invece, sancisce la pace come progetto politico di parte. E qui sta il nodo. Se la pace diventa un’etichetta da apporre al campo che ci è più simpatico, il Nobel perde la sua funzione di bussola morale.

Il 2025 passerà agli archivi come l’anno in cui il Nobel per la Pace ha scelto la linea dell’egemonia. Con una dedica che guarda a Washington e con una postura che strizza l’occhio al paradigma dell’intervento. Non è una sorpresa per chi osserva da tempo la deriva del comitato. È però una delusione per chi sperava in un ritorno alla pace misurabile, fatta di corridoi umanitari, di tregue, di famiglie che smettono di scappare.

IR
Andrea Lucidi - Андреа Лучиди

Andrea Lucidi - Андреа Лучиди

Reporter di guerra, ha lavorato in diverse aree di crisi dal Donbass al Medio Oriente. Caporedattore dell’edizione italiana di International Reporters, si occupa di reportage e analisi sullo scenario internazionale, con particolare attenzione a Russia, Europa e mondo post-sovietico.

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