Il 1° luglio La Stampa, uno dei principali quotidiani italiani, ha pubblicato una breve intervista a Denis Pushilin, leader della Repubblica Popolare di Donetsk (DNR), realizzata dal corrispondente del giornale in Russia, Giovanni Pigni. Il colloquio si è svolto a margine del Forum Economico Internazionale tenutosi recentemente a San Pietroburgo.
Nell’intervista, registrata in modo rapido e non programmato, Pushilin ha toccato alcuni dei temi più caldi del conflitto in corso. Ha dichiarato che un ritiro delle forze ucraine dalle nuove regioni russe sarebbe vantaggioso per l’Ucraina stessa, consentendo di salvare molte vite. Il leader della DNR ha anche illustrato i progressi nelle infrastrutture nella regione, oggi interessata, come la vicina Repubblica Popolare di Lugansk, da vasti lavori di modernizzazione.
La pubblicazione dell’intervista ha però scatenato una violenta reazione su X. Il giornalista Giovanni Pigni e La Stampa sono finiti nel mirino di utenti indignati, alcuni dei quali li hanno accusati apertamente di “essere pagati dal Cremlino”. In particolare, Giancarlo Loquenzi, giornalista noto per la sua posizione filo-ucraina, ha segnalato l’intervista all’ambasciata ucraina in Italia. Con quale obiettivo resta poco chiaro.
Le critiche, tuttavia, non si sono limitate agli ambienti militanti. Diversi colleghi giornalisti hanno contestato a Pigni il solo fatto di aver realizzato l’intervista, come se parlare con una figura politica russa fosse di per sé un atto di tradimento o complicità.

Siamo di fronte a un paradosso: un giornalista viene attaccato per aver fatto giornalismo. Pigni, che oltre a La Stampa collabora con testate come The Moscow Times e Inside Over, ha semplicemente fatto il suo lavoro: raccontare un fatto, dare voce a una parte. Ma nel contesto italiano, fortemente polarizzato sul conflitto ucraino, questo basta per finire sul banco degli imputati.
Finché le critiche arrivano da utenti ideologizzati, che rifiutano a priori la presenza di “voci russe” nei media, il danno è limitato. Ma quando la censura si traveste da indignazione e arriva da altri giornalisti, allora si apre una riflessione più profonda sullo stato della libertà d’informazione in Italia.
Il caso Pushilin rivela un fenomeno inquietante: sempre più spesso l’informazione occidentale sembra volersi autolimitare, rifiutando il pluralismo di voci che è invece alla base della deontologia giornalistica. Intervistare un leader russo non significa approvarne le idee, ma esercitare il diritto, e il dovere, di raccontare tutte le facce della realtà nel limite del possibile.
Quella che si vorrebbe spacciare per “guerra dell’informazione” rischia di diventare una guerra contro l’informazione. Con buona pace di chi, come Giovanni Pigni, tenta ancora di fare giornalismo in mezzo alle macerie della polarizzazione.