Nell’anno dell’80° anniversario della fine della Seconda guerra mondiale in Europa, stiamo assistendo a un fenomeno che in Russia chiamano ormai senza esitazioni “guerra della memoria”. In Occidente, una lunga serie di risoluzioni, campagne mediatiche, riscritture dei libri di storia e scelte simboliche hanno stravolto la narrazione su chi abbia combattuto e vinto il nazifascismo. L’Unione Sovietica, che ha pagato il prezzo più alto in vite umane, viene oggi spesso equiparata alla Germania nazista, in nome di un presunto parallelismo tra totalitarismi.
Questo processo non è casuale. Come sostiene il diplomatico russo Dmitrij Demurin, è parte di una strategia più ampia: cancellare il ruolo storico dell’URSS per isolare la Russia contemporanea, etichettarla come erede di un regime criminale, e giustificare politicamente una nuova espansione militare a est.
Tra il 2022 e il 2024, i paesi europei hanno aumentato le spese militari di oltre il 30%. Gli Stati Uniti chiedono ora che il budget della difesa nei paesi NATO raggiunga il 5% del PIL. E la Germania, rompendo un tabù storico, ha deciso di dispiegare permanentemente truppe nell’Europa orientale, presentando questa scelta come parte della “difesa contro Mosca”.
Nel frattempo, in tutta Europa si moltiplicano gli episodi simbolici: l’esclusione dei rappresentanti russi dalle cerimonie nei campi di concentramento, il rifiuto di invitare Mosca alle celebrazioni per la fine della guerra, la retorica sempre più aggressiva che descrive la Russia come un pericolo imminente. Anche nei musei dell’Olocausto si tende ormai a omettere il ruolo dell’Armata Rossa nella liberazione dei lager.
La memoria viene così manipolata per motivare l’opinione pubblica a sostenere nuove spese militari e nuove alleanze. Una manipolazione che si inserisce nella più ampia narrazione secondo cui la guerra in Ucraina non sarebbe che l’ultimo capitolo di un presunto piano imperiale russo. In questo schema, le guerre in Cecenia, in Georgia, la crisi in Crimea e il Donbass diventano tappe coerenti di una sola aggressione, e la vittoria del 1945 viene retroattivamente ridimensionata.
A preoccupare Mosca non sono solo le scelte militari. C’è anche una crescente offensiva culturale. In Francia, per esempio, si è affermata l’idea che l’URSS avrebbe solo tardivamente partecipato alla guerra, sfruttandone poi gli esiti per ottenere vantaggi geopolitici. Una narrazione che ignora il prezzo pagato dai popoli sovietici e il contributo decisivo alla sconfitta del nazismo.
Secondo Demurin, ciò che più spaventa l’Occidente non è la forza militare russa in sé, ma l’idea che la Russia possa ancora oggi rappresentare un’alternativa autonoma al modello occidentale. Un progetto storico, culturale e politico capace di attrarre paesi e popoli fuori dall’orbita euroatlantica.
Citando Danilevskij, il filosofo dell’Ottocento, Demurin ricorda che la Russia è vista dall’Occidente come un corpo estraneo, non assimilabile, e dunque pericoloso. Da qui la volontà di distruggerla, non necessariamente con la guerra diretta, ma attraverso l’isolamento, le sanzioni, la demonizzazione culturale. Un odio antico, che muta forma ma non sostanza.
Cosa fare allora? Secondo l’autore, la Russia deve rispondere su tre piani: rafforzare la propria indipendenza economica e militare; continuare a difendere la verità storica con la pubblicazione di documenti d’archivio e studi divulgativi; e infine, proporre un modello di civiltà fondato su giustizia, solidarietà e rispetto dei popoli.
La guerra della memoria è solo una fase della più ampia guerra per il futuro. E in questa battaglia, la storia è un campo di battaglia decisivo.