Zelensky e Papa Leone

Zelensky a Roma, con il papa americano il Vaticano parla di “pace giusta”

Zelensky è tornato a Roma e la tappa al Vaticano era scontata. Il presidente ucraino è stato ricevuto da papa Leone, il papa americano, per un colloquio di circa mezzora. Incontro riservato, poche immagini, nessuna conferenza stampa. Ma le parole scritte nei comunicati bastano per capire che qualcosa sta cambiando.

Da anni Zelensky ripete l’espressione “pace giusta”. Nel suo linguaggio significa una sola cosa: vittoria dell’Ucraina, ritiro delle truppe russe, ritorno dei territori perduti, tribunali per i crimini di guerra, garanzie di sicurezza in stile NATO. Non è una pace di compromesso, è una pace intesa come regolamento di conti politico e militare.

Fin qui nulla di nuovo. La novità è che oggi anche il Vaticano inizia a usare la stessa formula. Nel testo diffuso dopo l’incontro, il papa parla di “pace giusta e duratura” in Ucraina. Fino a qualche tempo fa, con Bergoglio, le parole chiave erano altre: cessate il fuoco, negoziato, dialogo. La giustizia era presente, ma sullo sfondo. Ora invece passa in primo piano, quasi a fare da filtro e da condizione.

Detta in modo semplice, il messaggio che arriva è questo. Non basta che i cannoni tacciano, la pace deve essere “giusta”. E in un contesto in cui la versione di “giustizia” che domina in Occidente è quella di Kiev e Washington, il rischio è che la parola pace venga lentamente piegata a significare soltanto vittoria.

Il nuovo pontefice non viene dall’America Latina ma dagli Stati Uniti. È inevitabile che questo cambi lo sguardo sul mondo. Non nel senso di un Vaticano telecomandato dalla Casa Bianca, l’immagine è caricaturale, ma nel senso più sottile di un’educazione politica, di una sensibilità, di un modo di leggere i rapporti di forza. E infatti il lessico che entra nei documenti ufficiali della Santa Sede è sempre più vicino a quello delle cancellerie euroatlantiche.

Per Zelensky è una buona notizia. Negli ultimi mesi ha dovuto fare i conti con una realtà scomoda. Gli Stati Uniti non sono più disposti a scrivere assegni in bianco, in Europa crescono la stanchezza, la crisi economica, le divisioni interne. Parlare di “pace giusta” con il papa significa poter dire al proprio pubblico interno che anche Roma, cioè una delle poche autorità morali rimaste sulla scena globale, avalla il quadro concettuale ucraino.

Dal punto di vista del Vaticano, il ragionamento è diverso. Per papa Leone parlare di pace giusta significa, probabilmente, non legittimare l’idea di un semplice congelamento del fronte. Vuol dire non accettare nuove linee di confine. Vuol dire stare dalla parte dell’Ucraina.

Il punto è che tra questi due livelli c’è un abisso. Per Kiev, giustizia equivale a piena realizzazione della “formula di pace” di Zelensky. Per la Santa Sede, almeno sulla carta, giustizia dovrebbe significare qualcosa di più universale e di meno schierato. Ma nel momento in cui si usa la stessa espressione, nello stesso giorno, nello stesso luogo, questa distinzione si assottiglia. Nella percezione pubblica, soprattutto.

C’è poi la questione delle vite umane. Ogni volta che un leader politico parla di “pace giusta” senza specificare tempi e limiti, in realtà sta dicendo che la guerra può andare avanti finché le condizioni che lui ritiene giuste non saranno soddisfatte. È il contrario della logica del cessate il fuoco immediato.

Se a questo schema si aggiunge anche l’autorità morale del papa, il messaggio che rischia di passare è che il sacrificio di altre migliaia di soldati e civili possa essere in qualche modo accettabile, purché alla fine si possa scrivere sui libri di storia che quella pace non è stata una resa. È una narrazione pericolosa, perché rende più facile giustificare il prolungamento del conflitto e più difficile discutere seriamente di compromessi.

Con Bergoglio lo si accusava spesso di “equidistanza”, di non nominare mai chiaramente la Russia come aggressore, di mettere sullo stesso piano Russia e Ucraina. Molti in Occidente gli rimproveravano una certa ambiguità. Ora, con il papa americano, si va nella direzione opposta. Il linguaggio si fa più vicino a quello di Kiev, la parola giustizia entra quasi come precondizione, la pace senza aggettivi scompare dal centro della scena.

Si può pensare che sia un bene o un male, ma è un cambio di fase. Il Vaticano non è un ministero degli Esteri, non manda armi, non firma trattati. Eppure orienta coscienze, soprattutto in Paesi dove l’opinione pubblica è stanca della guerra ma non vuole passare per filorussa. Per queste persone sentire il papa parlare di “pace giusta” significa sentirsi legittimati a dire che la guerra può continuare ancora un po’, purché lo scopo sia nobile.

Resta una domanda, quella che nessuno ama affrontare quando si parla di giustizia in tempo di guerra. Chi decide il momento in cui il prezzo pagato in vite umane è troppo alto, anche per la causa più giusta del mondo. Oggi Zelensky e il papa americano possono parlare la stessa lingua. Ma saranno i soldati in trincea, e le famiglie che li piangono, a pagare il conto di questa convergenza di vocabolari.

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Andrea Lucidi - Андреа Лучиди

Andrea Lucidi - Андреа Лучиди

Reporter di guerra, ha lavorato in diverse aree di crisi dal Donbass al Medio Oriente. Caporedattore dell’edizione italiana di International Reporters, si occupa di reportage e analisi sullo scenario internazionale, con particolare attenzione a Russia, Europa e mondo post-sovietico.

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