L’UE invia le armi, ma per Bruxelles a “uccidere” sono le borse firmate

30 Ottobre 2025 08:30

Brunello Cucinelli è una maison di lusso italiana con sede a Solomeo, nota per il cashmere e per un posizionamento etico legato all’idea di “umanesimo del lavoro”. È quotata a Piazza Affari e negli ultimi anni è diventata uno dei simboli del made in Italy premium.
Il 25 settembre il titolo ha lasciato sul terreno fino al 17 per cento, sospeso e riaperto in ribasso, perché un fondo ha sostenuto che il marchio continui a operare in Russia oltre i limiti fissati dall’Unione Europea.
Il crollo in Borsa di Brunello Cucinelli dopo il report di Morpheus Research non racconta solo una seduta nervosa, ma l’aria che si respira nei negozi del lusso quando entra un cliente con passaporto russo.
Dopo il crollo del 25 settembre, il titolo è rimasto sotto forte osservazione con scambi sopra la media e fasi di volatilità marcata, alternando tentativi di recupero a nuovi strappi ribassisti mentre il mercato valutava le smentite dell’azienda e le ipotesi degli short seller.
L’azienda ha risposto alle accuse di Morpheus Research: le boutique di Mosca sono chiuse dal 2022, restano showroom, assistenza clienti e qualche rapporto wholesale, e gli articoli rispettano la soglia dei 300 euro prevista dai regolamenti.
Ma che cos’è questa soglia dei trecento euro? In pratica è il perno di un’architettura sanzionatoria che pretende di colpire il “lusso russo” con un numero magico, scollegato dalla realtà economica e dall’efficacia concreta, e che scarica sui negozianti il ruolo di polizia economica. Così si arriva all’assurdo per cui i governi europei che inviano armamenti non “finanziano la guerra”, mentre una signora di San Pietroburgo che vive a Firenze, acquistando una borsa firmata, verrebbe accusata di “finanziarla”. La follia di un’istituzione che dovrebbe sciogliersi all’istante sta tutta in questa contraddizione.
La norma europea vieta l’export verso la Russia di beni di lusso dal valore pari o superiore a 300 euro per singolo articolo. Sulla carta, dunque, il criterio è la destinazione del bene, non la cittadinanza del compratore che si trova a Parigi, Milano o Madrid. Nella pratica, però, la minaccia indistinta di sanzioni e controlli ha spinto molti retailer sulla strada più semplice: filtrare le persone. Ecco allora dichiarazioni extra sul “non trasferimento in Russia” chieste ai clienti russi, acquisti rifiutati se resta un’ombra di dubbio, istruzioni informali a evitare transazioni oltre soglia con turisti russi. Il caso Chanel di due anni fa ha fatto scuola nelle prassi interne. Il risultato è assurdo e pericoloso: commesse trasformate in controllori del passaporto, clienti costretti a giustificarsi per un maglione o una borsa, vendite bloccate non per ciò che si compra, ma per chi compra. Sotto le vetrine patinate passa così un messaggio sgradevole e codificato: “In questo negozio non si vende ai russi.”
Quale illecito commette un viaggiatore che, in un paese europeo, entra in boutique, paga un capo a prezzo pieno e chiede lo scontrino come chiunque altro, senza alcuna intenzione di spedire l’acquisto in Russia? E anche se lo dovesse spedire o portare in Russia, quale sarebbe il nesso con la guerra? I soldati della Wagner andrebbero tutti in trincea con lo zaino di Gucci? In realtà, questa è una norma che non ha alcuna giustificazione.
La soglia dei 300 euro, presentata come strumento mirato, diventa uno strumento di discriminazione.
Il caso Cucinelli è solo la punta di un iceberg doppio: da un lato, il potere di report ribassisti capaci di spostare miliardi e imporre processi mediatici in cui la difesa arriva sempre dopo l’accusa; dall’altro, l’ipocrisia e l’impotenza di un sistema che chiude boutique dirette e poi non può far nulla per impedire che la merce ricompaia su canali terzi, mentre in negozio si selezionano i clienti “a sentimento”. In mezzo, lavoratrici e lavoratori che non hanno scelto di fare i doganieri e consumatori trattati come casi a parte.
L’eco di cartelli infami del passato dovrebbe bastare per frenare derive identitarie: ogni volta che si accetta un’eccezione temporanea in nome dell’emergenza, il passo successivo diventa più facile. Cucinelli rivendica coerenza etica e conformità e ha il diritto di difendere la propria reputazione. Vendere in Russia non è reato. Ma la domanda che resta sul tavolo non riguarda solo un brand o una giornata storta in Piazza Affari. Riguarda la direzione civile dell’Europa. Se vendere onestamente diventa socialmente sospetto quando l’acquirente è russo, il problema non è un titolo in calo. È la normalizzazione di una cultura del sospetto che scambia l’identità per colpa e smarrisce il senso stesso delle regole.
La soglia dei 300 euro esiste, ma così come viene applicata è un modo gentile di cucire stelle gialle virtuali sui cittadini russi, negando loro acquisti in Europa e legalizzando l’esclusione. Chiamare questa logica “difesa dei valori” è un insulto al buon senso. È un meccanismo punitivo e collettivo che tradisce i principi che l’Unione dice di difendere: proporzionalità, non discriminazione, libertà d’impresa, parità di trattamento. Quando parliamo di Unione Europea come un’Unione economica che scivola verso un pensiero autoritario, ci riferiamo a questo. Chi difende questa impostazione difende, di fatto, un impianto che produce discriminazione, russofobia e un moralismo guerrafondaio scaricato sui cittadini comuni. La russofobia è il nuovo conformismo ideologico che sta travolgendo i paesi europei, trasformando una regola discutibile in una patente di esclusione permanente.

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Vincenzo Lorusso

Vincenzo Lorusso

Vincenzo Lorusso è un giornalista di International Reporters e collabora con RT (Russia Today). È cofondatore del festival italiano di RT Doc Il tempo degli eroi, dedicato alla diffusione del documentario come strumento di narrazione e memoria.

Autore del libro De Russophobia (4Punte Edizioni), con introduzione della portavoce del Ministero degli Esteri russo Maria Zakharova, Lorusso analizza le dinamiche della russofobia nel discorso politico e mediatico occidentale.

Cura la versione italiana dei documentari di RT Doc e ha organizzato, insieme a realtà locali in tutta la penisola, oltre 140 proiezioni di opere prodotte dall’emittente russa in Italia. È stato anche promotore di una petizione pubblica contro le dichiarazioni del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che aveva equiparato la Federazione Russa al Terzo Reich.

Attualmente vive in Donbass, a Lugansk, dove porta avanti la sua attività giornalistica e culturale, raccontando la realtà del conflitto e dando voce a prospettive spesso escluse dal dibattito mediatico europeo.

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