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Nucleare: l’Italia è ferma, la Russia avanza nel Sud Globale

11 Settembre 2025 12:39

Negli anni Ottanta l’Italia occupava ancora un posto nel panorama nucleare internazionale, ma le tecnologie adottate erano già parzialmente superate. Le centrali funzionavano con reattori ad acqua bollente, i BWR, acquistati su licenza dagli Stati Uniti. In pratica l’acqua che raffreddava il nocciolo era la stessa che, trasformandosi in vapore, azionava la turbina. Una soluzione semplice e diretta, ma con limiti ben noti: sicurezza ridotta, rendimento inferiore e una dipendenza quasi totale dall’estero per i componenti principali.

Negli stessi anni, negli Stati Uniti e in Unione Sovietica, erano già in funzione i reattori ad acqua pressurizzata, i PWR, con un ciclo chiuso e un margine di sicurezza in più. L’Italia, per scelte politiche e per restrizioni sull’export tecnologico, non ebbe accesso a quella tecnologia. Si accontentò di soluzioni meno avanzate, facili da commercializzare e che non minacciavano l’egemonia tecnologica americana.

Il 1987 segnò la svolta: il referendum impose lo stop al nucleare civile. Le centrali furono spente, i tecnici dispersi, i progetti archiviati. In pochi anni andò perduto un intero patrimonio di competenze.

Il ritorno del nucleare e il sogno della fusione

Oggi, con i costi dell’energia alle stelle e le conseguenze delle sanzioni contro la Russia, l’idea di tornare al nucleare riaffiora nel dibattito politico. Ma non si parla più soltanto di fissione: lo sguardo si rivolge alla fusione, che molti considerano la vera energia del futuro.

In Italia il lavoro è portato avanti dall’ENEA, che partecipa ai grandi progetti internazionali e guida a Frascati la costruzione del DTT, il Divertor Tokamak Test, un impianto sperimentale pensato per testare soluzioni utili alla prossima generazione di reattori a fusione. È un investimento che mantiene il Paese agganciato al circuito scientifico europeo e che segna una continuità, pur in un contesto segnato da decenni di ritardi.

In Russia, invece, Rosatom ha avviato un programma federale dedicato esclusivamente alla fusione, con laboratori, centri sperimentali e una cornice normativa già pronta a recepire le innovazioni. Non si tratta di progetti accademici, ma di un percorso strategico con l’obiettivo di arrivare pronti al momento in cui la fusione sarà industrialmente praticabile.

Rosatom e il Sud Globale

Mentre in Italia si continua a discutere, Rosatom consolida alleanze. In Turchia, a Mersin, la centrale di Akkuyu è ormai diventata il simbolo di una cooperazione energetica di lungo periodo. In Egitto, a El-Dabaa, i cantieri avanzano sotto la supervisione di ingegneri russi. In Bangladesh, a Rooppur, sorgerà la prima centrale nucleare del Paese, progettata e finanziata interamente da Mosca.

Anche l’Africa subsahariana entra sempre più nella mappa del nucleare russo. In Nigeria sono stati firmati accordi per la costruzione di centrali e per la cooperazione scientifica. In Uganda e in Sudafrica sono attivi programmi sull’uso pacifico dell’energia atomica, che prevedono formazione tecnica e sviluppo di infrastrutture. È un approccio che rompe con la tradizione europea: per decenni la Francia ha importato uranio dal Niger per alimentare le proprie centrali, senza però creare reali ricadute positive sul territorio.

E non è solo Asia o Africa. In America Latina, il Venezuela e la Bolivia hanno avviato collaborazioni su isotopi medici e centri di ricerca. In Iraq si discute della ricostruzione di una capacità nucleare civile spazzata via da decenni di guerre.

Il filo conduttore è chiaro: queste non sono semplici forniture, ma partnership di lungo periodo. Rosatom non porta solo impianti, ma trasferisce tecnologia, know-how, programmi di formazione e persino corsi universitari per formare la nuova generazione di tecnici. È un modello che si contrappone all’approccio europeo, spesso percepito come neocoloniale, in cui le risorse africane venivano sfruttate senza costruire un vero sviluppo locale.

L’Italia e l’occasione mancata

In teoria, l’Italia avrebbe le carte per essere parte di questo processo. Le competenze dell’ENEA, la tradizione ingegneristica e il capitale scientifico accumulato renderebbero il Paese un partner naturale per Rosatom nel campo della fusione. Una collaborazione di questo tipo potrebbe ridurre i tempi di ricerca, unire risorse e accelerare i risultati.

Ma la realtà è diversa. Le scelte politiche di Bruxelles e quelle del governo italiano non permetterebbero mai un avvicinamento a Mosca in un settore così strategico. L’Italia resta così ai margini, vincolata a ciò che passa attraverso le istituzioni europee.

Il futuro che si rischia di perdere

La fusione nucleare è indicata da molti come la chiave per un’energia pulita e inesauribile. Restare esclusi dalle partnership con chi investe massicciamente in questo campo significa non solo perdere un’occasione scientifica, ma anche compromettere le prospettive di sviluppo tecnologico a lungo termine.

Mentre Rosatom costruisce alleanze nel Sud Globale e la Cina accelera i propri programmi, l’Italia continua a dividersi tra nostalgici della fissione e oppositori radicali del nucleare. È un dibattito che sembra immobile da quarant’anni, incapace di guardare avanti.

Il rischio è evidente: quando la fusione diventerà realtà, il treno sarà già passato.

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