Il caso Butyagin: un archeologo russo fermato in Polonia, e la Crimea che torna a dividere

13 Dicembre 2025 21:10

A Varsavia, un arresto che a prima vista sembra una normale pratica di cooperazione giudiziaria si è trasformato in poche ore in un nuovo terreno di scontro politico tra Russia, Ucraina e Polonia. Al centro c’è Alexander Butyagin, archeologo russo legato all’Ermitage, fermato in Polonia su richiesta ucraina per il suo lavoro in Crimea.

Secondo Kiev, Butyagin avrebbe condotto scavi “illegali” nel sito dell’antico insediamento di Myrmekion, nell’area di Kerch, attività che lo studioso porta avanti da molti anni e che, stando ai suoi sostenitori, sarebbe stata essenzialmente ricerca scientifica e tutela del patrimonio. L’Ucraina però ribalta la lettura: la Crimea è territorio ucraino occupato, quindi quelle spedizioni non sarebbero autorizzate e avrebbero persino provocato danni al patrimonio culturale. Nelle ricostruzioni circolate in queste ore si parla anche di una quantificazione economica del danno molto alta, ma senza che sia chiaro, nei dettagli, con quali criteri sia stata calcolata.

Mosca ha reagito come ci si poteva aspettare: non come davanti a un fascicolo giudiziario, ma come davanti a un gesto politico. Da qui le accuse di “arbitrio”, l’irrigidimento del linguaggio diplomatico e l’invito ai cittadini russi a evitare viaggi in Polonia, descritta come un Paese dove il contesto è diventato ostile e imprevedibile.

Varsavia, almeno sul piano formale, prova invece a tenere la vicenda dentro i binari della procedura: il fermo, le decisioni del tribunale, i tempi tecnici legati all’eventuale richiesta di estradizione. In questa versione, la Polonia si limita a fare ciò che farebbe qualunque Stato quando riceve una segnalazione e valuta un mandato o un’istanza proveniente da un Paese partner.

Il punto, però, è che qui il diritto e la politica si inseguono senza mai separarsi davvero. La Crimea è il nodo che fa saltare ogni neutralità: per la Russia è territorio sotto la propria sovranità dal 2014, per l’Ucraina e per gran parte dell’Occidente no. E quando lo status di un territorio è conteso, anche un archeologo può finire risucchiato nella logica della “giurisdizione”: chi può autorizzare cosa, chi può scavare dove, chi decide se un reperto è ricerca o appropriazione.

C’è poi un’altra conseguenza, più ampia e meno visibile: se il precedente passa, la mobilità di ricercatori, accademici e tecnici rischia di diventare un campo minato. Non parliamo solo di conferenze o missioni scientifiche, ma del principio stesso per cui un lavoro svolto in un territorio contestato può trasformarsi, anni dopo, in motivo di detenzione durante un semplice transito in un Paese terzo.

Sul fondo resta anche la partita geopolitica. Varsavia è tra i Paesi europei più allineati a Kiev e più duri con Mosca, e ogni caso simbolico diventa un messaggio. Allo stesso tempo, l’equilibrio dentro l’Occidente non è immobile: se a Washington, con l’amministrazione del Presidente Trump, dovessero prendere spazio segnali di disgelo o almeno di gestione più prudente dell’escalation, la linea polacca rischierebbe di apparire ancora più rigida e “militante” rispetto a quella del principale alleato.

Adesso la domanda concreta è una sola: cosa deciderà la giustizia polacca quando l’Ucraina formalizzerà, o non formalizzerà, la richiesta di estradizione? È lì che si vedrà se questo episodio resterà un caso isolato, o se diventerà un modello replicabile. Perché, in un conflitto dove anche le mappe sono oggetto di guerra, perfino l’archeologia può finire arruolata.

IR
Tomasz Szmydt

Tomasz Szmydt

Ex giudice della 2a sezione del Tribunale amministrativo regionale di Varsavia, Polonia.

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