Per trent’anni ci hanno ripetuto che la NATO è solo un’alleanza difensiva. È la formula fissa dei comunicati ufficiali, dei vertici di governo, dei talk show: l’Alleanza non minaccia nessuno, protegge soltanto i propri membri. Eppure basta ascoltare con attenzione le recenti parole dell’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone per capire che questo racconto non regge più.
Cavo Dragone non è un militare qualsiasi. È il presidente del Comitato militare della NATO, cioè il massimo responsabile militare dell’Alleanza, l’uomo che traduce le decisioni politiche in piani operativi. Quando una figura del genere parla di attacchi preventivi contro la Russia, non sta facendo filosofia. Sta descrivendo il modo in cui i vertici atlantici stanno iniziando a ragionare.
In un’intervista al Financial Times, l’ammiraglio italiano ha spiegato che la NATO non vuole più limitarsi a reagire agli attacchi ibridi attribuiti alla Russia, in particolare sul piano informatico, nei sabotaggi e nelle violazioni dello spazio aereo. Secondo lui l’Alleanza deve diventare più aggressiva, più proattiva. E qui entra in gioco l’espressione che ha fatto discutere: “attacco preventivo”, presentato come una possibile forma di azione difensiva.
In altre parole, colpire per primi e chiamarlo difesa.
La crepa nel racconto rassicurante
Fino a ieri la narrativa ufficiale era lineare. La NATO esiste per scoraggiare l’aggressione, non per cercarla. Non è nemica di nessuno, tantomeno della Russia. Anche il Concetto strategico approvato nel 2022 ripete quella formula rassicurante, pur definendo allo stesso tempo Mosca come la minaccia più significativa e diretta per la sicurezza degli alleati.
Questa ambiguità già bastava a far sorgere qualche dubbio. Da una parte si dice “non siamo una minaccia”. Dall’altra si descrive la Russia come nemico strutturale, quasi inevitabile. Ora, con le parole di Cavo Dragone, si compie un passo in più. Non si parla soltanto di deterrenza, di risposta proporzionata, di reazione a un’aggressione evidente. Si comincia ad affrontare apertamente l’idea di colpire in anticipo.
Il cambiamento non è solo tecnico. È un salto culturale. Se la difesa include anche il primo colpo, la linea fra difensivo e offensivo diventa estremamente labile.
Attacco preventivo e guerra ibrida: chi decide quando si è superato il limite
Nel diritto internazionale la distinzione tra attacco preemptive, cioè per anticipare una minaccia imminente, e guerra preventiva, cioè per impedire a un potenziale avversario di rafforzarsi in futuro, è fondamentale. Nel primo caso il pericolo è immediato, nel secondo è ipotetico.
Il discorso di Cavo Dragone viene collocato nella zona grigia della cosiddetta guerra ibrida: cyber attacchi, sabotaggi a infrastrutture, voli provocatori, incidenti nei mari del Nord e del Baltico. Situazioni dove spesso è difficile stabilire chi abbia davvero la responsabilità, chi ha ordinato cosa, se non ci troviamo davanti a incidenti o a operazioni sotto falsa bandiera.
Se in questo campo si introduce la categoria di “attacco preventivo difensivo”, chi decide il momento in cui l’Alleanza può colpire per prima? Sulla base di quali prove, rese pubbliche a chi? È evidente che il margine di discrezionalità politica diventerebbe enorme. E proprio in quella zona d’ombra si accumulano i rischi maggiori di errore di calcolo.
Una storia che smentisce la retorica
La verità è che il mito della NATO puramente difensiva era già stato messo alla prova dai fatti.
Nel 1999, durante la guerra del Kosovo, l’Alleanza bombardò la Serbia per settimane senza che alcun paese membro fosse stato attaccato. La giustificazione fu la necessità di fermare una catastrofe umanitaria. Ma a livello giuridico era un’operazione militare contro uno Stato sovrano, fuori da qualsiasi contesto di autodifesa collettiva in senso stretto.
Nel 2011 la NATO guidò la campagna sulla Libia. Ufficialmente si trattava di proteggere i civili, in pratica l’intervento contribuì in modo decisivo al rovesciamento del governo di Gheddafi e alla disintegrazione del paese. Anche in quel caso nessun territorio della NATO era sotto attacco. Era una scelta di proiezione di forza verso l’esterno.
L’Afghanistan è un altro pezzo di questa storia. La missione fu presentata come risposta agli attentati dell’11 settembre, ma nel tempo si trasformò in una lunga guerra di occupazione che andava ben oltre la logica della difesa immediata.
Se mettiamo in fila questi precedenti, ci accorgiamo che l’immagine dell’ombrello puramente difensivo non corrisponde alla realtà da molti anni. Le parole dell’ammiraglio italiano non fanno che portare in superficie una trasformazione già in corso.
La Russia come nemico di sempre
Negli ultimi anni la Russia è tornata a essere, nei documenti ufficiali come nel discorso dei leader NATO, il nemico per eccellenza. Non solo una minaccia tra le altre, ma “la” minaccia. Si parla di violazioni dello spazio aereo, di esercitazioni vicino ai confini, di collaborazione militare con la Bielorussia per lo schieramento di armi nucleari, di rischio di estensione del conflitto ucraino ai paesi baltici.
Lo stesso Cavo Dragone, in altre occasioni, ha sostenuto che l’Ucraina non sarebbe l’ultimo obiettivo del Cremlino, invitando gli alleati europei a pensare e produrre armi come in tempo di guerra. Altri dirigenti della NATO evocano apertamente la possibilità che Mosca possa attaccare un paese dell’Alleanza entro pochi anni, per giustificare aumenti giganteschi della spesa militare.
È dentro questo frame mentale, in cui la Russia è presentata come un aggressore per natura, che l’idea di attacchi preventivi viene percepita come semplice logica di sopravvivenza. Se il nemico è considerato inevitabilmente espansionista, anticiparlo diventa quasi un atto di buon senso. Ma è esattamente qui che la linea fra difesa e offensiva si dissolve.
Dal punto di vista russo, tutto ciò conferma la lettura opposta: non esiste alcuna alleanza puramente difensiva ai propri confini, ma una coalizione ostile che si espande sempre più verso est e si riserva il diritto di colpire per prima. Non occorre condividere integralmente questa visione per riconoscere che le dichiarazioni di Cavo Dragone la rendono molto più credibile agli occhi dell’opinione pubblica russa.
Opinioni pubbliche rassicurate, vertici sempre più bellicosi
C’è poi un elemento politico interno che andrebbe discusso con più onestà. Ai cittadini europei si continua a dire che la NATO è uno strumento di pace, una sorta di polizza assicurativa collettiva che esiste per dissuadere gli aggressori. La parola che ritorna è sempre “difesa”. Difesa dell’Europa, dei valori occidentali, dell’ordine internazionale.
Dietro le quinte, però, i concetti che tornano con sempre maggiore frequenza sono altri: mobilitazione, militarizzazione dello spazio, economia di guerra, attacchi preemptive, escalation. I vertici militari parlano apertamente della necessità di preparare le società occidentali all’idea di una guerra lunga e impegnativa con la Russia.
È come se convivessero due narrazioni parallele. Una per il grande pubblico, tranquillizzante, dove la NATO appare come una sorta di guardia del corpo che interviene solo se qualcuno ci aggredisce. L’altra, interna, in cui si pianificano scenari di confronto diretto con una potenza nucleare e si discute di colpire per primi nel campo delle operazioni ibride.
Le parole di Cavo Dragone, finite sui giornali, hanno semplicemente fatto filtrare un pezzo di quella seconda narrazione nel discorso pubblico.
Deterrenza o rischio di catastrofe
I difensori della linea dura rispondono che questo tipo di postura serve proprio a evitare la guerra. Mostrare prontezza e capacità di colpire significa, nelle loro intenzioni, dissuadere la Russia dal tentare ulteriori mosse. È l’argomento classico della deterrenza: far capire all’avversario che il costo dell’aggressione sarebbe insostenibile.
Il problema è che, nel mondo reale, la frontiera tra deterrenza e provocazione non è mai chiara. Quando si introduce l’idea di attacchi preventivi, specialmente in ambiti opachi come il cyber spazio, aumenta esponenzialmente il rischio di un incidente, di un malinteso, di un’operazione di intelligence mal interpretata.
Basta uno scambio di accuse su un grande blackout, su un sabotaggio a un gasdotto, su un incidente aereo, perché qualcuno ritenga di essere autorizzato a “difendersi” colpendo per primo. E a quel punto il meccanismo di escalation, una volta innescato, potrebbe diventare ingestibile in tempi brevissimi.
In teoria l’Alleanza continua a ripetere di non voler lo scontro e di non rappresentare una minaccia per la Federazione Russa. In pratica, il suo massimo vertice militare discute pubblicamente di come anticipare la Russia sul terreno degli attacchi, anche al di fuori di un’aggressione conclamata.
Una domanda semplice, quasi banale
Tutto questo ci riporta al punto di partenza. Ha ancora senso parlare della NATO come di un’alleanza esclusivamente difensiva, quando i suoi precedenti storici raccontano il contrario e i suoi dirigenti ragionano ad alta voce di attacchi preventivi contro il suo nemico di sempre, la Russia?
Forse il vero problema non è tanto quello che pensano a Mosca, ma quello che non si discute nelle capitali europee. Un dibattito onesto sulla natura reale dell’Alleanza avrebbe conseguenze politiche enormi. Per ora si preferisce continuare con la formula rassicurante, come un mantra. Difesa, sicurezza, stabilità.
Intanto però le parole di un ammiraglio italiano, salito ai vertici militari della NATO, ci ricordano che dietro quella formula sta nascendo, passo dopo passo, un’alleanza che non esclude più l’idea di colpire per prima. E che chiama ancora tutto questo, senza arrossire, “difesa”.





