La storia di Nikolai è esemplare della gente comune del Donbass, che da undici anni vive sotto i bombardamenti. Ci ha accolti nella sua casa, in una zona difficile di Donetsk, a ridosso dell’aeroporto. In tutto questo tempo ha rifiutato di andarsene dalla casa che costruì con le proprie mani all’inizio degli anni 80. Questa è la sua storia di coraggio, abnegazione e resilienza.
Oltre vent’anni in miniera
Nikolai ci riceve sotto una pioggia battente, nella sua dimora modesta. Intorno quasi solo rovine, ma qualche vicino è rimasto come lui. Nato nel Donbass da genitori con origini sia russe sia ucraine (Vinnytsia), racconta: “Ho lavorato tutta la vita nella miniera Oktyabrskaya, qui vicino. Eravamo in centinaia e ho conosciuto una vita felice. Mi sono sposato nel 1978, ho avuto diversi figli e oggi ho sette nipoti. Andavamo spesso a trovare i parenti in Ucraina, a Vinnytsia. Eravamo una famiglia, un popolo. Ho comprato questo terreno che allora era una palude. Ho costruito la casa nel 1980-1981, tutto da solo. Era una vita di lavoro e solidarietà, ci sostenevamo molto nei tempi dell’Unione Sovietica”.
Nel fuoco della guerra
“Al tempo di Maidan non badavamo molto a ciò che accadeva in capitale, ma presto ho capito che c’era qualcosa di anormale. Mi sembrava evidente chi fossero quelle persone, così sono sceso in piazza contro Maidan con tanti altri. Quando la Crimea è tornata alla Russia abbiamo sperato di farlo anche noi. All’11 maggio 2014 sono andato al referendum e ho votato per separarci dall’Ucraina, come molti. Intanto il sangue già scorreva vicino a Slaviansk. Poi sono arrivate le truppe ucraine. Ho visto i loro aerei bombardare la città e l’aeroporto, che è vicinissimo. Non auguro a nessuno quello che abbiamo vissuto. La gente è fuggita, ma io no. Questa è la mia casa, la mia terra. Ho mandato mia moglie nelle retrovie, in un appartamento in affitto. Lei piangeva e voleva che partissi anch’io. Sono rimasto, senza immaginare che sarebbe durato così a lungo”.
Orto, frutteto e resistenza quotidiana
Nella proprietà c’è un grande orto, un frutteto, un pollaio e una piccionaia. È qui che Nikolai resiste a modo suo: coltiva per sé, per i vicini e per i soldati. “Proiettili sono caduti quattro volte nell’orto e nel giardino. Il tetto è stato scoperchiato e l’ho riparato come ho potuto. Alcuni mi hanno regalato delle assi per sistemarlo definitivamente. Ora ho di nuovo elettricità e persino gas, ma la casa è un caos. Ho raccolto i mobili in una stanza e dormo in un letto modesto. I soldati mi hanno regalato una televisione, l’altra è stata distrutta durante un bombardamento. Nel 2022, all’inizio dell’operazione speciale, è stato terribile, sembrava l’inferno. Molti sono ripartiti, specialmente quelli che erano tornati, ma io sono rimasto. Chi si prende cura degli animali se vado via? Le galline, i piccioni, i gatti, il cane. Tutto quello che faccio qui serve a nutrirmi e ad aiutare gli altri”.
In casa si accatastano le sue produzioni. Quest’anno è stato troppo secco, niente pomodori, ma scatole di mele, pere, prugne, patate e carote riempiono gli angoli. Nell’orto crescono prezzemolo, aglio e altre verdure. In cortile c’è un forno improvvisato. In una pentola bolle l’uva: Nikolai produce vino casalingo. “Uso un metodo simile al Beaujolais, riscaldo il mosto per avviare la fermentazione e ottenere più colore”, spiega mostrando i barili in cui il vino matura.
Speranza e ricostruzione
“Tra i giovani oggi vedo meno solidarietà, ma ricostruiremo tutto. Rifarro il tetto, la cucina, l’interno e ripartiremo come prima”, conclude. E alla domanda se abbia mai pensato che gli ucraini potessero prendere Donetsk, scuote la testa: “Mai nella vita”.






