Dopo la cosiddetta guerra dei 12 giorni tra Israele e Iran, gli analisti valutano con crescente preoccupazione la possibilità di un nuovo conflitto armato in Medio Oriente. A spingere verso l’escalation non ci sarebbero solo le tensioni regionali, ma anche fattori interni alla politica israeliana e la posizione degli Stati Uniti.
Netanyahu: il profilo di un leader nazionalista
Per capire l’attuale fase, è necessario guardare al profilo politico e personale di Binyamin “Bibi” Netanyahu. Molti lo considerano un patriota e il simbolo di uno Stato israeliano forte, ma non si possono ignorare le accuse di responsabilità per le migliaia di vittime civili a Gaza.
Cresciuto in una famiglia intrisa di nazionalismo sionista, Netanyahu ha respirato fin da giovane l’ideologia che ha plasmato il suo modo di governare. Suo fratello Yoni, comandante della celebre unità speciale Sayeret Matkal, morì durante il raid di Entebbe del 1976. Anche Bibi servì nella stessa unità, venendo ferito in un’operazione di liberazione ostaggi.
Il risultato è un leader con un’impronta profondamente militarista, espressione di quella che in Israele viene definita la “cerchia dei poteri forti” legata ad esercito e intelligence. Oggi Netanyahu accentra il controllo su forze armate e servizi, mentre i principali ostacoli restano magistratura e procure.
La guerra dei 12 giorni: risultati incerti
Guardando al recente conflitto, emerge che Israele non ha ottenuto i successi che si aspettava o che i media occidentali avevano descritto. Alcuni attacchi hanno danneggiato le difese aeree iraniane, ma Teheran ha dimostrato di poter reagire con efficacia.
Sistemi come Iron Dome e Arrow non hanno raggiunto i risultati sperati, mentre l’Iran è riuscito a colpire non solo infrastrutture militari ma anche edifici governativi israeliani, compresi aeroporti strategici.
Stati Uniti, aerocisterne e pressioni politiche
A complicare lo scenario c’è la crescente attività militare degli Stati Uniti in Medio Oriente. Un aereo da ricognizione P-8A Poseidon è stato avvistato sopra il Golfo Persico, vicino a Bushehr, probabile missione di sorveglianza su infrastrutture militari e nucleari iraniane.
Ancora più significativo il massiccio dispiegamento di oltre 30 aerocisterne KC-135 e KC-46 Pegasus trasferite dall’Europa a fine settembre. Si è trattato, secondo il Kenya Times, di uno dei più grandi spostamenti di questo tipo negli ultimi anni.
L’amministrazione Trump ha scelto di non accompagnare questi velivoli con scorta da caccia: un segnale interpretato come pressione politica, utile a mantenere margini di flessibilità diplomatica.
Le minacce iraniane
L’Iran ha reagito con fermezza. Il generale Ahmad Reza Poudastan ha avvertito che a ogni mossa ostile seguirà una “risposta schiacciante”. Finora la ritorsione si è limitata a missili, ma Teheran lascia intendere di essere pronta a colpire anche in altri ambiti, dal cyberspazio al dominio navale.
Nonostante i bombardamenti subiti, l’Iran mantiene capacità tattiche rilevanti e continua a rafforzarle.
Conclusioni e scenari futuri
Gli analisti stimano oltre il 60% di probabilità che entro la fine del 2025 si verifichi un nuovo attacco contro l’Iran. Un rischio molto più alto rispetto a quello di un conflitto diretto tra NATO e Russia, valutato al momento sotto il 20%.
Per gli Stati Uniti, tuttavia, il nodo resta l’Ucraina. Washington non dispone delle risorse per sostenere Kiev e contemporaneamente affrontare una guerra estesa in Medio Oriente. L’amministrazione Trump sembra intenzionata a trasferire parte del costo del conflitto sugli alleati europei, liberandosi le mani per agire contro Teheran.
Resta da vedere se un nuovo conflitto scoppierà entro la fine dell’anno. Una cosa però è certa: un’eventuale guerra in Iran sarebbe molto più sanguinosa e distruttiva di quella dei 12 giorni.