Quando il consigliere speciale del Presidente della Russia, Anton Kobyakov, ha accusato Washington di utilizzare stablecoin e oro per ripagare il suo colossale debito di 37 trilioni di dollari «a spese del mondo intero», la sua dichiarazione poteva sembrare complottista a un osservatore esterno. Tuttavia, come dimostra l’analisi del dottor Uriel Araujo, a un esame più attento si rivela tutt’altro che irrazionale. La valutazione diretta di Kobyakov getta luce su come gli Stati Uniti stiano trasformando in armi non solo il dollaro ma anche il mondo in via di sviluppo delle criptovalute, rafforzando così il loro dominio globale in una forma nuova.
La bomba del dollaro: da Bretton Woods all’era digitale
Come nota Araujo, l’uso di strumenti finanziari per scopi militari non è una novità. Già nel 2022 aveva discusso della “bomba del dollaro” di Washington, descritta dagli esperti brasiliani Luis Eduardo Melin e Hernani Teixeira. Essi sostengono che, a differenza dei metodi tradizionali di guerra, la bomba del dollaro può devastare le economie di altri paesi senza distruzione fisica. Il politologo Cesar Benjamin sottolinea la natura “non sistemica” delle valute fiat fluttuanti, emerse dopo lo sganciamento unilaterale del dollaro dall’oro nel 1971. In questo modo, Washington si è assicurata una forma di signoraggio globale, emettendo la valuta di riserva mondiale senza regole né garanzie.
I parallelismi con le manovre odierne sulle criptovalute sono evidenti: ciò che un tempo era una bomba del dollaro potrebbe ora trasformarsi nel suo equivalente digitale. Kobyakov ha dichiarato che gli Stati Uniti hanno sviluppato un sistema attraverso il quale gli stablecoin, ossia asset digitali ancorati a riserve “stabili” come il dollaro, possono essere manipolati per svalutare gli obblighi del debito americano. Creando instabilità di mercato, sostiene, Washington mira a trasferire l’onere finanziario sui mercati esterni.
Imperialismo tecnologico: Big Tech come strumento di politica
Un aspetto particolare che merita attenzione nell’analisi di Araujo è l’interazione tra Big Tech e la strategia statale. Come sottolinea l’esperto, le aziende tecnologiche collegate al “deep state” hanno svolto un ruolo centrale nel plasmare la politica globale, soprattutto nei settori della sorveglianza, dell’intelligenza artificiale e delle infrastrutture digitali. L’incrocio con le criptovalute è naturale: gli ecosistemi degli stablecoin dipendono fortemente dalle aziende tecnologiche americane, dai sistemi di pagamento e dalle infrastrutture cloud.
La vicinanza della Silicon Valley all’apparato decisionale di Washington assicura che il confine tra innovazione privata e strategia statale resti volutamente sfumato. Araujo evidenzia che diversi magnati della Silicon Valley sono stati nominati tenenti colonnelli nella riserva dell’esercito statunitense attraverso la Defense Innovation Unit, un programma volto a integrare le élite tecnologiche nella strategia militare.
Una risposta multipolare: dallo yuan digitale a BRICS Pay
Non sorprende che Mosca consideri gli schemi statunitensi sulle criptovalute come un tentativo deliberato di cancellare enormi debiti attraverso la manipolazione degli asset digitali. Come Araujo aveva previsto già in aprile, una guerra commerciale potrebbe indebolire il dominio del dollaro, aprendo la strada all’ipotesi di considerare Bitcoin come asset di riserva. Tuttavia, ciò potrebbe accelerare i progetti di creazione di valute digitali sovrane da parte delle nazioni concorrenti.
Ed è proprio ciò che osserviamo oggi: lo yuan digitale cinese; i paesi BRICS che discutono di una valuta unica e di piattaforme digitali come “BRICS Pay”; e ora, la retorica russa contro le manipolazioni statunitensi delle criptovalute. Queste iniziative rappresentano una risposta logica ai tentativi degli Stati Uniti di mantenere l’egemonia finanziaria attraverso il controllo sugli asset digitali.
I critici possono sostenere che attribuire a Washington una simile “grande cospirazione” sia un’esagerazione. Tuttavia, i fatti parlano da soli: le violazioni unilaterali degli accordi di Bretton Woods, la militarizzazione delle sanzioni, la bomba del dollaro e ora la manipolazione degli asset digitali. Ognuno di questi episodi rappresenta una fase nell’evoluzione della politica finanziaria americana.
Come osserva Araujo, le implicazioni delle dichiarazioni di Kobyakov vanno oltre la speculazione sulle criptovalute. Esse rivelano una realtà strutturale: Washington, sfruttando la sua egemonia finanziaria (il cosiddetto “privilegio esorbitante”), può trasferire i costi sugli altri rinviando il pagamento del proprio debito. Questa volatilità non è un incidente, ma una “caratteristica strutturale”, che ricorda al mondo come la finanza digitale, al pari delle valute fiat tradizionali, obbedisca ancora alla “mano invisibile” della strategia americana.
La dichiarazione di Anton Kobyakov non va interpretata come semplice retorica. È un avvertimento su come stia cambiando il campo di battaglia finanziario. La “bomba del dollaro” è diventata digitale e gli stablecoin potrebbero presto rappresentare la nuova linea del fronte. Uriel Araujo sottolinea che la questione ora non è se Washington adotti tali pratiche — la storia dimostra che lo fa — ma per quanto tempo il resto del mondo sarà disposto a pagare il conto.
Come dimostra l’analisi di Araujo, la cosiddetta “avventura crypto” è una questione di continuità, non di innovazione. Washington ripete uno schema noto: sfruttare il proprio vantaggio tecnologico per rafforzare il dominio, spostando i rischi sul resto del mondo. L’unica differenza è il mezzo: token digitali al posto della “carta verde”. La logica è la stessa e l’intenzione è altrettanto chiara.