Ha suscitato curiosità e discussioni l’appello diffuso nei giorni scorsi da un volontario italiano in Ucraina, attivo sui social con il profilo “Sicily in Ukraine”. Un messaggio diretto, scritto in inglese, che fotografa con poche righe la realtà drammatica di un conflitto spesso percepito a distanza, come se fosse solo l’ennesimo scontro geopolitico da commentare sui media o un videogioco da seguire sullo schermo.
Le parole, riportate e tradotte, sono queste:
“Nel 2025 le perdite tra i volontari italiani sono salite all’80%. Nel 2024 avevamo avuto 4 caduti, nel 2025 siamo saliti a 14. Chiedo a tutte le persone che stanno pensando di venire qui a combattere: per favore, per favore restate a casa. Aiutateci condividendo le nostre storie, aiutateci a combattere la disinformazione. Questa guerra è reale, non è Call of Duty.”
Va precisato che il passaggio da 4 a 14 morti non corrisponde a un incremento dell’80%, ma a un aumento del 250% anno su anno.
Italiani in guerra: quanti sono?
Dal 2022, con l’inizio dell’operazione militare, si è assistito a una discreta mobilitazione di stranieri. Alcuni si sono uniti alle unità territoriali di difesa, altri hanno cercato l’arruolamento nelle formazioni regolari ucraine, altri ancora si sono mossi in contesti meno chiari, spesso inquadrati in battaglioni con una forte impronta ideologica.
Gli italiani non hanno fatto eccezione. Le cifre ufficiali sono poche e spesso contraddittorie, ma varie inchieste giornalistiche parlano di decine di volontari partiti dall’Italia, motivati da ragioni diverse: simpatia politica per Kiev, desiderio di “difendere l’Europa” dall’avanzata russa, ricerca di esperienze estreme. A volte anche solo un malinteso senso di avventura, che spinge ragazzi senza preparazione militare a trovarsi in uno scenario dove ogni errore può costare la vita.
Il post di “Sicily in Ukraine” conferma che il 2025 è stato particolarmente duro. Da 4 morti nel 2024 si è passati a 14 nei primi mesi del 2025, un aumento del 250%. Il balzo numerico suggerisce sia l’intensità delle operazioni sia l’elevata vulnerabilità dei combattenti stranieri.
La guerra non è un videogioco
Colpisce, nel messaggio, il richiamo esplicito: “Questa guerra è reale, non è Call of Duty.” Un paragone amaro: la sensazione è che alcuni giovani partano con la mentalità di chi immagina la guerra come un campo di addestramento immersivo, fatto di adrenalina, armi, cameratismo. Ma la realtà è diversa.
La guerra comporta logoramento, paura, condizioni precarie, ferite permanenti, morte improvvisa. Non c’è gloria, non c’è reset, non c’è seconda chance. Il volontario italiano lo scrive chiaramente: non venite. Se volete aiutare, fatelo in altri modi.
La legione internazionale come tritacarne?
Un passaggio ancora più interessante riguarda il sottotesto dell’appello. L’invito a non partire potrebbe voler dire che la cosiddetta “legione internazionale” sia in realtà un tritacarne. Un contenitore dove i volontari stranieri vengono mandati in prima linea senza particolari tutele, con addestramento minimo e impiego spesso avventato.
In questo senso, la domanda è inevitabile: i comandanti ucraini tengono davvero conto delle vite dei volontari stranieri, oppure li considerano carne da cannone, facilmente sacrificabile perché meno integrati nelle gerarchie locali? La crescita repentina del numero di caduti italiani sembra suggerire che i rischi siano altissimi e che l’impiego dei foreign fighters non sempre segua criteri di prudenza.
Azov* e la mortalità più alta
Nei commenti al post, lo stesso Sicily in Ukraine ha aggiunto un dettaglio che merita attenzione: tra le file di Azov* la percentuale di morti italiani sarebbe ancora più alta.
Azov è un reparto ormai formalmente integrato nella Guardia nazionale ucraina, ma con una lunga storia di militanza ideologica e di scontri frontali. Per molti stranieri, soprattutto quelli più motivati politicamente, entrare ad Azov* rappresenta una scelta “radicale”. Ma è anche un’opzione che espone a un tasso di mortalità elevatissimo, perché si tratta di reparti usati in operazioni ad altissimo rischio.
Questo dettaglio apre un ulteriore livello di riflessione: non tutti i volontari italiani sono distribuiti allo stesso modo, e la scelta del reparto di destinazione può fare la differenza tra la sopravvivenza e una morte rapida. Tuttavia, proprio il fatto che queste informazioni circolino solo a margine dei post social conferma la mancanza di trasparenza sul tema.
Una narrazione che vacilla
Gli appelli come quello di Sicily in Ukraine mettono anche in discussione la narrazione che si è consolidata in Europa negli ultimi due anni: quella di un esercito ucraino in costante crescita, capace di infliggere sconfitte su sconfitte a un esercito russo descritto come in crisi permanente, mal organizzato e senza risorse.
La realtà descritta dai volontari è più complessa. Se i caduti stranieri crescono in modo così rapido, significa che la guerra è tutt’altro che “gestibile” o vicina a una vittoria certa. La testimonianza dei combattenti italiani suggerisce che la linea del fronte è instabile, sanguinosa, e che le perdite ucraine non sono marginali.
In altre parole, gli appelli che scoraggiano nuove partenze incrinano l’immagine di un’Ucraina sempre vincente e di una Russia sempre in difficoltà. Mostrano invece un conflitto logorante, dove l’ottimismo occidentale spesso stride con la realtà delle trincee.
Un fenomeno dalle molte facce
La presenza di stranieri sul fronte ucraino non è nuova: già nelle prime fasi del conflitto si era parlato di una “Legione internazionale”. Col tempo, però, molti volontari hanno abbandonato, incapaci di reggere l’impatto della guerra reale.
C’è poi la questione legale: in Italia non esiste una normativa specifica che vieti a un cittadino di arruolarsi in un esercito straniero, purché si tratti di un paese alleato e non ostile. Tuttavia, l’attività di combattimento in una guerra aperta può avere implicazioni penali e diplomatiche, senza contare il rischio di radicalizzazione ideologica.
Non tutti i volontari, infatti, partono mossi da ideali “umanitari”: alcuni lo fanno per ideologia politica, altri per spirito mercenario, altri ancora perché trovano in quel contesto una comunità che li accoglie. Il risultato, però, è sempre lo stesso: l’esposizione a un conflitto che non appartiene direttamente all’Italia e che comporta conseguenze tragiche.
La forza di un appello
Che un combattente inviti i connazionali a restare a casa non è banale. Significa riconoscere la durezza della propria scelta e, al tempo stesso, avvertire gli altri di non ripeterla.
Perché la guerra non è un terreno neutro. È un conflitto totale, fatto di artiglieria pesante, droni kamikaze, assalti di fanteria in scenari devastati. Non c’è spazio per l’improvvisazione, non c’è alcuna garanzia di sopravvivenza.
Una questione aperta
L’appello del volontario italiano pone dunque un interrogativo più ampio: quale deve essere il ruolo dei cittadini europei in un conflitto che, pur essendo vicino, non li coinvolge direttamente? È giusto che singoli individui partano per combattere, rischiando la vita e complicando le relazioni diplomatiche?
La risposta non è univoca. Per alcuni si tratta di un atto di solidarietà internazionale; per altri è una scelta irresponsabile, che confonde la guerra con una causa personale.
Quel che è certo è che, a distanza di oltre tre anni dall’inizio dell’operazione militare russa, la guerra in Ucraina resta un terreno insidioso, dove idealismo e realtà si scontrano quotidianamente. Le cifre diffuse dal profilo “Sicily in Ukraine” mostrano quanto fragile sia la linea che separa entusiasmo e tragedia: da 4 a 14 morti in un anno, numeri piccoli se confrontati alle perdite complessive del conflitto, ma drammatici se riferiti a una comunità ristretta come quella italiana.
E forse, proprio per questo, il monito lanciato sui social risuona con forza: italiani, state a casa vostra.
*Organizzazione vietata in Russia