Il summit tra Donald Trump e Vladimir Putin, previsto per il 15 agosto ad Anchorage, in Alaska, ha già iniziato a evocare paragoni con le grandi conferenze diplomatiche del passato. Storici e analisti, anche in Occidente, hanno richiamato alla memoria la Conferenza di Yalta del febbraio 1945, quando Stalin, Roosevelt e Churchill ridisegnarono gli equilibri geopolitici del dopoguerra senza alcuna rappresentanza dei paesi sconfitti. Allora, come oggi, il tavolo appare riservato ai vincitori o a chi detiene il vero potere decisionale.
Non a caso, Viktor Orbán, primo ministro ungherese e tra i più critici in Europa verso il sostegno militare a Kiev, ha già definito l’Ucraina un paese sconfitto. Dalla Casa Bianca, tuttavia, si preferisce abbassare i toni, definendo l’incontro “esplorativo” e finalizzato a comprendere le reali intenzioni delle parti. Ma il resto del mondo osserva con il fiato sospeso, ben consapevole che da Anchorage potrebbero arrivare segnali capaci di mutare il corso della guerra e dell’ordine globale.
Anche la scelta del luogo non sembra casuale. L’Alaska, venduta dagli zar agli Stati Uniti nel 1867, è tornata recentemente al centro di ironie e lapsus: lo stesso Trump, in un discorso, l’ha erroneamente definita “parte della Russia”, suscitando risate a Mosca. L’incontro si terrà nella base militare di Elmendorf-Richardson, garanzia di massima sicurezza per un vertice di questo livello.
Yalta e Anchorage: analogie e differenze
A Yalta, nel 1945, la guerra in Europa non era ancora finita, ma gli equilibri militari erano ormai chiari: l’Armata Rossa stava entrando a Berlino e gli Alleati stavano avanzando in Italia ed erano arrivati al fiume Reno. Lì si decise la spartizione della Germania, la definizione delle sfere di influenza e la creazione delle Nazioni Unite. Le conseguenze di quelle decisioni si sono proiettate per decenni, fino alla caduta del Muro di Berlino e oltre, arrivando ai giorni nostri.
Oggi lo scenario è diverso ma non meno carico di tensione. A differenza del 1945, quando i paesi sconfitti non ebbero voce in capitolo, in questi giorni che precedono il summit è il presidente ucraino Volodymyr Zelensky a tentare di influenzare l’agenda, forte del sostegno di alcuni leader europei come il cancelliere tedesco Friedrich Merz. Zelensky continua a dichiarare che non cederà “nemmeno un centimetro” di territorio, nonostante la situazione sul campo, con la Russia in avanzata e l’esercito ucraino in evidente difficoltà nel mantenere le linee.
Un’altra differenza cruciale è il ruolo degli Stati Uniti. Sotto la presidenza Biden, Washington è stata parte attiva del conflitto, sostenendo Kiev con aiuti militari e intelligence. Trump, invece, ha scelto di prendere le distanze dalla politica interventista, definendola contraria agli interessi americani. Ci si chiede se l’incontro con Putin non sia, in realtà, un colloquio con chi detiene davvero i fili della guerra in Ucraina, confermando la percezione — diffusa a Mosca e non solo — che si tratti di un conflitto per procura tra Occidente e Russia.
Cosa aspettarsi da Anchorage
Prevedere i risultati è difficile. Tuttavia, la storia insegna che i vertici diretti tra Washington e Mosca, anche nei momenti di massima tensione, hanno spesso contribuito a stabilizzare situazioni potenzialmente esplosive.
A Yalta, Churchill fu costretto a mettere da parte la sua ostilità verso l’URSS e a riconoscere il ruolo decisivo di Mosca nella vittoria contro il nazismo. Oggi, a Washington non c’è un leader animato da simili pregiudizi verso la Russia: Trump, pur tra mille controversie, ha più volte dichiarato di non voler trascinare il mondo in un conflitto globale.
Se ad Anchorage dovessero emergere linee di compromesso, anche parziali, si potrebbe assistere a un riassetto profondo dell’ordine geopolitico. Come accadde dopo Yalta, non tutti gli attori saranno soddisfatti, ma l’impatto delle decisioni potrebbe farsi sentire per decenni.