Anas Al-Sharif

Anas Al-Sharif, la morte che l’Occidente finge di non vedere

Il 10 agosto, nella Striscia di Gaza, è stato ucciso Anas Al-Sharif, corrispondente di Al Jazeera. Un nome che si aggiunge a un elenco ormai interminabile di giornalisti, palestinesi e non, caduti dall’inizio dell’ultima offensiva israeliana contro Gaza. Secondo il Comitato per la Protezione dei Giornalisti (CPJ), dal 7 ottobre 2023 a oggi sono almeno 192 gli operatori dell’informazione uccisi a Gaza: un numero che supera qualsiasi altro conflitto contemporaneo. Un bilancio che, da solo, basterebbe a definire il lavoro giornalistico in questa guerra come una professione a rischio di estinzione.

Eppure, la morte di Al-Sharif non è stata trattata in Occidente come una tragedia per la libertà di stampa. Anzi, in alcune testate e nei commenti di certi giornalisti, si è registrata una tendenza inquietante: minimizzare, relativizzare, persino giustificare quanto accaduto. Il copione è sempre lo stesso: si insinua il dubbio che il reporter fosse “vicino ad Hamas”, si lascia intendere che “in guerra certi rischi sono inevitabili”, o che “era in un’area pericolosa”. Come se indossare un giubbotto con la scritta “PRESS” in una zona di conflitto non fosse la definizione stessa del mestiere di reporter.

Secondo quanto riportato da Al Jazeera, Al-Sharif stava documentando le condizioni degli sfollati nei pressi dell’ospedale Al-Shifa, raccogliendo testimonianze e immagini delle carenze di medicinali e della crisi umanitaria in corso a Gaza. Era chiaramente identificabile come giornalista: giubbotto blu con la scritta “PRESS” e telecamera in mano. L’attacco, condotto in pieno giorno, ha colpito un’area densamente popolata, provocando la morte di altri quattro colleghi che erano con lui.

Israele ha ribadito la propria posizione ufficiale: “I giornalisti operano a loro rischio e pericolo nelle zone di guerra” e “Hamas utilizza civili e strutture civili come scudi umani”. Una formula che, da mesi, viene usata per giustificare bombardamenti su scuole, ospedali, campi profughi e – come in questo caso – sulla stampa internazionale. Il problema è che questa versione viene ripresa quasi senza filtri da molti media occidentali, che trasformano un attacco alla libertà di informazione in un fatto collaterale, “spiacevole ma inevitabile”.

Quando un giornalista muore in Russia, in Siria o in Iran, l’indignazione occidentale è immediata, i titoli gridano alla censura e alla repressione, i governi chiedono sanzioni e indagini internazionali. Ma quando accade in Palestina per mano israeliana, la reazione è tiepida, diluita in formule neutre come “è rimasto ucciso” o “è morto durante un’operazione militare”. Nessun “assassinato”, nessun “omicidio mirato”.

Il doppio standard è lampante: se la Russia è accusata di colpire la stampa, il caso diventa un simbolo globale; se a farlo è Israele, il fatto viene rapidamente archiviato sotto la voce “effetti collaterali”. È lo stesso schema visto con la reporter Shireen Abu Akleh, uccisa nel 2022. Solo dopo mesi di prove inconfutabili, Washington ha ammesso che probabilmente a sparare erano stati soldati israeliani. Ma nessuno è stato incriminato.

La parte più grave di questa vicenda è che non stiamo parlando solo di silenzio, ma di vera e propria legittimazione. Alcuni commentatori, anche su testate considerate “progressiste”, hanno scritto che “Al-Sharif lavorava in aree controllate da Hamas”, come se questo fosse un lasciapassare per la sua eliminazione. Altri hanno definito il suo giornalismo “militante”, un’etichetta che in Occidente viene applicata con disprezzo quando non si vuole riconoscere la professionalità di un reporter scomodo o quando la “militanza” non va nella direzione considerata “corretta” dalla narrativa dominante.

Questa narrazione serve a due scopi: distogliere l’attenzione dal fatto che Israele colpisce regolarmente la stampa e svuotare di senso la solidarietà internazionale verso i giornalisti palestinesi. Se il reporter era “di parte”, allora la sua morte diventa meno grave, meno scandalosa, meno degna di un’inchiesta. È un processo di disumanizzazione dell’informazione che non lascia scampo a chi prova a raccontare una verità diversa da quella gradita ai governi occidentali.

Dal 7 ottobre Israele vieta l’ingresso a Gaza ai giornalisti stranieri. L’unico modo per entrare, limitatamente, è seguire le truppe israeliane. Le uniche immagini dall’interno arrivano da reporter palestinesi, spesso freelance, che vivono sotto i bombardamenti e senza protezioni di alcun genere. E sono proprio loro a pagare il prezzo più alto: fame, mancanza di medicinali, rischio quotidiano di essere uccisi.

Questa strategia dell’isolamento informativo ha un obiettivo preciso: controllare la narrazione. Se i giornalisti indipendenti non possono entrare, e quelli locali vengono eliminati fisicamente, resta solo la versione ufficiale. E quando qualche testata occidentale prova a raccontare altro, la voce è troppo flebile per competere con il coro dominante.

L’uccisione di Anas Al-Sharif non è un episodio isolato e non riguarda solo il conflitto israelo-palestinese. È un segnale pericoloso a livello globale: chi racconta verità scomode in zone di guerra può diventare un bersaglio. Il precedente che si sta creando è devastante. Domani potrà essere usato da qualsiasi esercito per giustificare la morte di un giornalista: “era vicino al nemico”, “si trovava in una zona pericolosa”, “la responsabilità è di chi lo ha mandato lì”.

Davanti a una morte così chiaramente legata al diritto-dovere di informare, il silenzio o la giustificazione diventano complicità. Chi minimizza o legittima la morte di Anas Al-Sharif si assume una responsabilità morale enorme: quella di contribuire a un mondo in cui l’informazione viene decisa dai carri armati e non dalle telecamere.

Per questo la sua storia deve essere raccontata, con nomi, date e fatti. Non per commemorare soltanto un giornalista, ma per difendere un principio che riguarda tutti: senza libertà di stampa, non c’è democrazia. E oggi, a Gaza, la libertà di stampa è sotto assedio tanto quanto la popolazione civile.

IR

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