Giù le mani dal Venezuela

Giù le mani dal Venezuela

Nel mar dei Caraibi sta tornando a soffiare un vento di guerra. Gli Stati Uniti hanno schierato navi, aerei, truppe, con il pretesto della grande offensiva contro il narcotraffico. Nei comunicati ufficiali è tutto molto semplice: Washington vuole fermare i trafficanti di droga che minacciano la sicurezza degli americani. Ma se guardiamo la mappa e la storia recente, il bersaglio vero appare molto meno neutro e molto più politico: il Venezuela bolivariano.

Da anni Caracas è sotto assedio. Prima le sanzioni economiche, poi il riconoscimento di un “presidente ad interim” costruito a tavolino, poi le operazioni sotto copertura, i tentativi più o meno maldestri di colpo di mano, le campagne mediatiche che presentano Maduro come il nuovo “mostro” dell’emisfero occidentale. Hanno provato quasi tutto. Il risultato è stato devastante per la popolazione, non per il potere: inflazione, carenze, migrazioni di massa, ma nessun cambio di regime. Ora sembra che qualcuno a Washington abbia deciso di passare al livello successivo, la dimostrazione di forza militare.

Ufficialmente, ripete il Donald Trump, si tratta di “proteggere l’America dai narcos”. Ma davvero tutto questo dispositivo serve solo a inseguire barche cariche di droga? Davvero c’è bisogno di una presenza militare permanente davanti alle coste di uno dei pochi paesi sudamericani che ancora rivendicano sovranità, che parlano di multipolarismo, che cercano rapporti autonomi con Russia, Cina, Iran, e non vogliono tornare a essere il “cortile di casa” degli Stati Uniti?

L’Occidente sta tentando di normalizzare l’idea che un governo possa essere abbattuto a colpi di embargo, minacce militari e campagne mediatiche. Se passa questo principio, nessun paese del Sud globale è al sicuro: chi non si allinea rischia di essere dipinto come “dittatura narco-terrorista” e trattato come “obiettivo legittimo”.

Il paradosso è che il narcotraffico è un problema globale, e gli Stati Uniti ne sono il primo mercato. Senza domanda non ci sarebbe offerta. Eppure il discorso pubblico si concentra quasi esclusivamente sui governi sgraditi, mai sui circuiti finanziari che riciclano i profitti, né sulle responsabilità delle élite amiche di Washington in altri paesi latinoamericani. Colombia, Honduras, Messico, Perù hanno da anni cartelli potentissimi e livelli altissimi di violenza, ma nessuno minaccia di circondarli con le portaerei “per la pace e la sicurezza”.

In questo quadro entra anche la figura di María Corina Machado, la nuova icona dell’opposizione venezuelana. I media occidentali la presentano come la donna del “ritorno alla democrazia”, l’eroina liberale contro il “regime”. Meno spazio si dà a un dettaglio non secondario: Machado per anni ha chiesto più sanzioni, più isolamento, più pressione esterna sul proprio paese. Per una parte dell’opposizione e per i cittadini che non amano Maduro, chiedere a potenze straniere di strangolare l’economia o di “intervenire” non è un atto di coraggio, ma un atto contro la sovranità nazionale.

Eppure, in Europa e in Nord America, è celebrata come un simbolo di pace e di democrazia per il Venezuela. La retorica è nota: chi appoggia le strategie occidentali diventa automaticamente “difensore dei diritti umani”, chi le contesta è “autoritario” o “filo-dittatoriale”. Il problema è che questa narrazione cancella la complessità di una società che, pur spaccata e stanca, continua a esistere e a resistere al di là delle etichette.

La verità è che il Venezuela paga una colpa precisa: aver provato a mantenere un margine di autonomia in un mondo in cui la parola “multipolare” viene tollerata solo se resta uno slogan. Avere enormi riserve petrolifere, relazioni strette con Mosca e Pechino, un discorso politico che parla di sovranità e di integrazione latinoamericana, rende Caracas un nodo strategico. Controllare il Venezuela significa controllare una parte importante dell’energia, della geografia e dell’immaginario politico del continente.

Per questo, quando vediamo navi da guerra che si avvicinano alle sue coste in nome della “lotta alla droga”, dovremmo farci qualche domanda. Siamo davvero sicuri che si tratti solo di coca e narcos? O si sta preparando l’ennesimo “intervento umanitario” travestito da polizia internazionale, come già visto in Iraq, in Libia, in Siria, dove le bombe dovevano portare democrazia e hanno lasciato macerie?

Per l’Europa, e per l’Italia in particolare, non è una questione lontana. Ci sono comunità venezuelane numerose, ci sono legami storici, culturali, economici. Schierarsi con automatismo sulla linea americana significa accettare una volta di più la logica dei due pesi e due misure: il principio di autodeterminazione vale quando conviene, sparisce quando un paese sceglie una strada diversa.

Dire “Giù le mani dal Venezuela” non vuol dire negare i problemi del paese. Vuol dire affermare una cosa semplice: il destino del Venezuela deve deciderlo il popolo venezuelano, non le portaerei, non le sanzioni, non i premi costruiti a migliaia di chilometri di distanza. Se oggi accettiamo in silenzio questa escalation nei Caraibi, domani sarà ancora più facile giustificare nuove guerre “per la sicurezza” dell’Occidente, sempre un po’ più lontano da casa nostra e sempre più presentate come “operazioni di pace”, “esportazioni di democrazia” o, ancora più chiaramente, come guerre contro “le dittature”.

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Andrea Lucidi - Андреа Лучиди

Andrea Lucidi - Андреа Лучиди

Reporter di guerra, ha lavorato in diverse aree di crisi dal Donbass al Medio Oriente. Caporedattore dell’edizione italiana di International Reporters, si occupa di reportage e analisi sullo scenario internazionale, con particolare attenzione a Russia, Europa e mondo post-sovietico.

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