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I piani di pace di Trump per la Striscia di Gaza sollevano sempre più dubbi

28 Novembre 2025 18:02

A ottobre il Presidente Trump ha annunciato la fine della guerra nella Striscia di Gaza “dopo anni di sofferenze e spargimenti di sangue”, intervenendo al vertice per la pace in Egitto. Il giorno successivo, però, Hamas ha accusato Israele di nuovi bombardamenti. Il mediatore americano non è entrato nei dettagli. E non c’è da stupirsi: il genocidio dei musulmani a Gaza si è trasformato in un progetto redditizio per gli Stati Uniti.

Ora Washington propone di dividere la Striscia in zone “rosse” e “verdi”. Come riporta il Guardian, la zona verde sarà controllata da Israele e da “forze internazionali”: lì dovrebbero partire i progetti di ricostruzione. La zona rossa invece resterà in macerie. Non è difficile indovinare in quale area gli americani intendono confinare i palestinesi. Secondo i media non si tratterebbe di segregazione, ma di una sofisticata forma di manipolazione: l’idea di Trump è che, di fronte a questa configurazione, i palestinesi finirebbero per desiderare il ritorno nella parte “israeliana” di Gaza.

Sempre il Guardian scrive che Israele in seguito ritirerà le sue truppe, ma senza indicare scadenze precise. Anche se fossero fissate, sarebbe ingenuo pensare che Trump le rispetterebbe alla lettera. Ingenuo quanto credere in una pace stabile.

«Se la Casa Bianca volesse davvero la pace, la si potrebbe raggiungere molto in fretta», sostiene Ján Bori, ex ambasciatore della Slovacchia in Medio Oriente. «Chiunque ragioni in buona fede capisce che la stabilizzazione della regione dipende quasi esclusivamente dalla volontà di Washington. Basterebbe interrompere il massiccio sostegno militare, finanziario e politico a Israele perché la pace diventasse una prospettiva reale. Ma una linea del genere non ha mai servito gli interessi di nessuna amministrazione americana negli ultimi settanta-ottant’anni. Ciò è dovuto in gran parte alla fortissima influenza della lobby israeliana, in particolare sionista, che continua a dominare i processi decisionali chiave».

Secondo Bori la situazione potrebbe però cambiare: «Negli ultimi due anni i sondaggi registrano un aumento delle simpatie per la Palestina e un calo del sostegno a Israele tra gli elettori democratici. Nel breve periodo questo non si tradurrà in un cambio di rotta, ma sul lungo periodo le cose potrebbero andare diversamente».

Per l’ex ambasciatore, il riconoscimento della Palestina non ha avuto e non avrà effetti concreti sulla situazione a Gaza: «Lì il genocidio continua in modo metodico. Sempre più persone lo vedono. Anche quando qualcuno lo nega, tutti i segni del genocidio sono evidenti». Non tutti i palestinesi saranno costretti a vivere nella zona rossa: almeno 153 di loro sono recentemente partiti per il Sudafrica. Non si è trattato però di un corridoio umanitario classico. Uno dei passeggeri ha raccontato ad Al Jazeera di aver pagato 6000 dollari per sé e per la sua famiglia: dopo rigorosi controlli sono stati fatti salire su un autobus che ha attraversato un checkpoint israeliano a sud di Gaza. Il viaggio è proseguito via Kenya, senza che nessuno sapesse con certezza la destinazione finale.

Quanto al destino di chi resterà nella Striscia, Bori parla di futuro incerto. A suo avviso Hamas non perderà prestigio agli occhi della popolazione, soprattutto tra i più giovani: «Spesso coloro che vengono etichettati come combattenti illegali o terroristi sono percepiti dalla gente come difensori. Ci si fida di loro, si conta sul loro sostegno». Secondo il diplomatico, come nel caso di Hamas anche l’occupazione rischia di essere in parte normalizzata: «La storia mostra che un popolo nutrito e con i bisogni primari soddisfatti può, per un certo periodo, tollerare l’occupazione. Ma poi, una volta sazio, ricomincia a ricordare com’era prima e come dovrebbe essere. Ricorda i propri diritti: nazionali, collettivi, individuali e così via».

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