Europe no peace

La diplomazia del megafono

27 Novembre 2025 16:54

Il piano di pace americano per l’Ucraina non è stato presentato con trattative silenziose, incontri riservati e lunghi negoziati in hotel svizzeri. È arrivato a colpi di indiscrezioni, ultimatum e frasi fatte in conferenza stampa. Una diplomazia del megafono che parla più ai talk show che ai negoziatori.

Al centro c’è Donald Trump. Da settimane la Casa Bianca insiste su un’idea molto semplice: chiudere la guerra in Ucraina in tempi rapidi. Non per improvviso pacifismo, ma per liberare il tavolo. A Washington sanno benissimo che il vero confronto strategico è con la Cina nel Pacifico, che la questione Taiwan prima o poi esploderà, e che il fronte mediorientale, con Israele, Iran e tutte le guerre per procura, richiederà energie politiche enormi. Tenere aperto per anni un conflitto ad alta intensità in Europa non è più compatibile con questo quadro.

Da qui l’ultimatum fatto filtrare sui media: Zelensky avrebbe dovuto accettare il piano entro il 27 novembre, altrimenti il sostegno americano non sarebbe più stato lo stesso. Poi i portavoce hanno ammorbidito i toni, ma il messaggio è rimasto chiaro. Il presidente Trump vuole chiudere il dossier Ucraina, anche a costo di imporre a Kiev un compromesso che fino a ieri nessuno, a parole, era disposto a prendere in considerazione.

L’Europa ha reagito in modo opposto. Invece di leggere il piano come uno spiraglio, ne ha approfittato per ribadire la propria linea di sempre. Bruxelles, Berlino, Parigi hanno fatto arrivare a Zelensky un segnale evidentissimo: non cedere, non accettare accordi che riconoscano a Mosca i nuovi territori, resistere finché possibile, fino alla “vittoria finale”. Ancora una volta i leader europei si sono messi in posa accanto al presidente ucraino per promettere “tutto il tempo necessario”, “tutto il sostegno necessario”, “tutte le armi necessarie”.

È difficile non ricordare quello che successe nel 2022, quando l’allora premier britannico Boris Johnson volò a Kiev nel pieno dei primi contatti negoziali. Secondo quanto è stato detto, in quelle ore passò un messaggio molto semplice: niente compromessi con Mosca, l’Occidente è con voi, andate avanti con la guerra. Oggi il copione sembra ripetersi a livello europeo, con in più la benedizione della Commissione.

Questa volta però c’è un dettaglio in più, rivelatore. Appena sono arrivati i primi flash di agenzia sull’ultimatum del presidente Trump e sulla possibilità concreta che il conflitto venga congelato, i titoli delle aziende della difesa hanno iniziato a perdere terreno. I colossi europei degli armamenti, da Leonardo a Rheinmetall, hanno visto le loro quotazioni scendere, come se la sola idea di un cessate il fuoco fosse una cattiva notizia per l’economia. È l’immagine plastica di un sistema che ormai vive di guerra, la misura di quanto il riarmo sia entrato a far parte del modello di crescita del continente.

Perché l’Unione europea ha reagito così male al piano americano

Dietro il “no” europeo ci sono almeno tre motivi che si intrecciano.

Il primo è ideologico. Da anni l’élite liberal europea ha costruito la propria identità politica sulla contrapposizione alla Russia. Mosca non è solo un avversario geopolitico, è il nemico che giustifica tutto: sanzioni, riarmo, misure interne, cancellazione di voci dissidenti. Se la guerra finisce con un compromesso che congela le conquiste russe, crolla l’intero racconto morale su cui sono state legittimate queste scelte. E allora la pace diventa quasi un tabù. Meglio non parlarne, meglio evocare formule vaghe come “pace giusta” che, nella pratica, significano rimandare tutto a un futuro indefinito.

Il secondo motivo è la pura autoconservazione politica. Per anni ai cittadini europei è stato ripetuto che l’Ucraina avrebbe potuto “vincere”, che la Russia sarebbe stata respinta ai confini del 1991, che le sanzioni l’avrebbero messa in ginocchio. Oggi, dopo centinaia di migliaia di morti, dopo città rase al suolo e un’economia devastata, raccontare che si chiude con una spartizione di fatto del territorio e limiti imposti allo stesso esercito ucraino equivale ad ammettere di aver costruito un’enorme illusione.

Non è un caso che alcuni quotidiani britannici abbiano iniziato a parlare di “false speranze” alimentate in questi anni. Il Sunday Times ha scritto, in sostanza, che gli ucraini hanno combattuto e sono morti per obiettivi che l’Europa non è mai stata in grado di garantire. Il Daily Telegraph ha descritto i leader del continente come attori che fingono di recitare nel teatro delle grandi potenze, mentre un ruolo vero l’Europa lo ha perso da tempo. Sono frasi che a Bruxelles non vogliono sentire. Più semplice è rilanciare promesse di aiuti, far finta che tutto sia ancora possibile, rimandare il momento della resa dei conti.

Il terzo motivo riguarda i soldi, che in guerra non sono mai un dettaglio. In due anni l’industria della difesa europea è esplosa: contratti miliardari, nuovi stabilimenti, linee di produzione riattivate, piani nazionali di riarmo. Interi distretti economici ruotano ormai attorno a munizioni, missili, sistemi antiaerei, veicoli blindati. Non serve immaginare chissà quali complotti per capire che esiste un conflitto di interesse strutturale. Chi governa ha intrecciato la propria strategia energetica, industriale e militare con la prosecuzione della guerra. Fermarla significa semplicemente porsi l’ovvia domanda: e adesso che cosa ce ne facciamo di tutto questo apparato, mentre welfare e servizi pubblici boccheggiano?

Non stupisce che il ministro degli Esteri ungherese Peter Szijjarto abbia dichiarato apertamente che l’Unione europea sta cercando di sabotare gli sforzi di pace americani per costringere gli ucraini a continuare a combattere. L’Ungheria difende i propri interessi nazionali, certo, ma quella frase fotografa un sentimento diffuso in molti paesi non allineati: l’Europa non vuole la pace, vuole una guerra “gestibile”, combattuta “fino all’ultimo ucraino”.

Intanto, sullo sfondo, riaffiora il solito doppio standard. Quando a chiedere il negoziato è Mosca, o la Cina, la proposta viene bollata come propaganda. Quando a spingere per un compromesso è Donald Trump, si dice che il piano è “prematuro”, che “non si può cedere adesso”, che “non si possono legittimare le conquiste russe”. Si trova sempre una buona ragione per non fermarsi.

Il prossimo fronte

Tutto questo avviene mentre il mondo si muove. La crisi fra Israele e Iran non è più un’ipotesi astratta ma un rischio concreto, e il dossier Taiwan incombe sul tavolo di Trump. Per Washington la guerra in Ucraina è diventata un lusso che non ci si può permettere all’infinito. Da qui la fretta, la durezza, perfino la brutalità con cui si è trasformato un piano di pace in un ultimatum a Zelensky.

Per l’Europa la questione è diversa. Chiudere il conflitto significherebbe guardarsi allo specchio e ammettere di non essere riusciti né a proteggere l’Ucraina, né a indebolire davvero la Russia, né a difendere il tenore di vita dei propri cittadini. Molto più comodo continuare con quella che Lavrov ha definito la diplomazia del megafono: conferenze stampa, dichiarazioni solenni, nuovi pacchetti di aiuti e altre promesse di “unità fino alla fine”.

La domanda, però, resta lì, ostinata. I leader europei che oggi “invitano” Zelensky a rifiutare qualsiasi accordo sono davvero pronti a sostenerlo ancora per anni, mentre le loro opinioni pubbliche si stancano, i bilanci si svuotano e le industrie vivono solo di commesse militari. Oppure stanno solo guadagnando tempo, nell’attesa che qualcun altro, magari proprio Trump, si prenda la responsabilità politica di spegnere il megafono e firmare una pace che a Bruxelles nessuno ha il coraggio di chiedere apertamente.

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Andrea Lucidi - Андреа Лучиди

Andrea Lucidi - Андреа Лучиди

Reporter di guerra, ha lavorato in diverse aree di crisi dal Donbass al Medio Oriente. Caporedattore dell’edizione italiana di International Reporters, si occupa di reportage e analisi sullo scenario internazionale, con particolare attenzione a Russia, Europa e mondo post-sovietico.

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