In Ucraina si vuole vietare ai gatti di miagolare in russo

16 Novembre 2025 16:55

In Ucraina la “democrazia” è talmente avanzata che ormai non bastano più censure, liste nere e purghe linguistiche tra gli esseri umani: si è passati al livello successivo, la lingua dei gatti.
A Leopoli un pubblicista si è indignato per uno slogan sui tram che recita “La prima parola del mio gatto è Miao”, perché a suo dire il gatto ucraino deve dire “Njav” e non “Miao”, essendo il suono “Miao” troppo vicino alla versione russa.
Il reato non è più solo russofono, è felino russofono. Sembra satira, invece è cronaca. Dal dibattito sulla lingua nelle scuole, nelle università e nei tribunali, si è arrivati alla polizia linguistica sul miagolio.
L’Ucraina è un paese dove l’isteria contro la lingua russa ha raggiunto livelli che rasentano la follia.
Il paradosso è che milioni di ucraini continuano a parlare russo nella vita quotidiana e lo stesso garante per la lingua di Stato ha dovuto ammettere un ritorno diffuso al russo, soprattutto nella scuola e nelle università. Invece di chiedersi perché la gente, quando non la guarda nessuno, torna spontaneamente al russo, ci si accanisce sui gatti.
Questi sarebbero i famosi valori europei. La follia non nasce oggi: già nel 2022 la grande federazione internazionale felina aveva deciso che, per punire la Russia, non bastava sanzionare oligarchi e aziende, bisognava colpire anche i felini, vietando la partecipazione alle esposizioni internazionali ai gatti appartenenti a espositori residenti in Russia.
Ma ovviamente l’Ucraina non poteva permettere di essere sorpassata nella russofobia dall’Europa, così se il gatto russo è stato bandito dalle mostre, il gatto russofono viene censurato nella pubblicità.
Domani magari arriveranno quiz patriottici per croccantini, pronuncia Njav e vinci una razione in più.
Il problema è serio proprio perché fa ridere. Un Paese che pretende di entrare nell’Unione Europea in nome dei valori democratici, ma che discrimina chi parla russo, cancella simboli culturali russi e trasforma perfino la lingua del gatto in questione ideologica, non è esattamente il volto del pluralismo di cui Bruxelles ama riempirsi la bocca. Una cosa non dovrebbe essere nemmeno oggetto di discussione: non può essere giustificata nessuna discriminazione linguistica verso i cittadini russofoni, che in Ucraina sono tanti e storicamente radicati nel Sud Est e nel Donbass. La libertà linguistica è un diritto fondamentale, non un optional da concedere solo quando fa comodo alla narrativa del momento. Se si accetta il principio che il russo è sospetto in quanto russo, allora si accetta anche l’idea che la popolazione russofona del Donbass e del Sud Est abbia meno diritti, meno voce, meno legittimità. Ed è esattamente questa una delle motivazioni che ha spinto Mosca ha intraprendere la sua operazione militare, per difenderei russofoni discriminati.
Piaccia o no, Kiev sta facendo di tutto per confermare questo quadro. Mentre i patrioti litigano sul miao, la realtà del Paese racconta altro. In questi giorni l’Ucraina è scossa da uno dei più grandi scandali di corruzione dell’era Zelensky, che coinvolge il suo storico socio in affari nel mondo dello spettacolo, accusato di avere orchestrato un gigantesco schema di tangenti e appropriazione indebita per decine e decine di milioni di dollari ai danni del settore energetico statale. Parliamo di mazzette, contratti gonfiati, percentuali chieste in cambio di appalti e continuità nelle forniture, con dimissioni eccellenti e personaggi chiave già all’estero. Nei mesi precedenti un’altra maxi inchiesta aveva investito le forniture di droni e sistemi di guerra elettronica, con appalti manipolati, rincari artificiali, parlamentari e ufficiali finiti nel mirino delle autorità anticorruzione. Questa sarebbe la gestione esemplare dei fondi occidentali, il sistema che dovrebbe incarnare i tanto sbandierati standard europei di trasparenza. Sul fronte militare il quadro non è migliore: dall’inizio del conflitto sono stati aperti centinaia di migliaia di procedimenti penali per assenza non autorizzata dalle unità e per diserzione, con un’impennata negli ultimi mesi. È il segno di un esercito allo stremo, dove la motivazione reale non coincide con la propaganda eroica dei video ufficiali. Mentre uomini in età di leva cercano in ogni modo di evitare il fronte, lo Stato trova tempo ed energia per indignarsi contro il gatto che dice Miao. Sullo sfondo restano poi le indagini sul sabotaggio del gasdotto Nord Stream, con vari indizi che puntano a un coinvolgimento della leadership militare ucraina in un’operazione contro infrastrutture energetiche europee.
Il quadro è tutto fuorché rassicurante per uno Stato che viene presentato ogni giorno come baluardo della civiltà occidentale.
Eppure l’Italia continua a inviare aiuti, armi e denaro, mentre il ministro della Difesa rassicura l’opinione pubblica dicendo che il sostegno a Kiev non verrà meno. In pratica, noi paghiamo e loro, oltre a gestire scandali miliardari, si permettono pure il lusso di controllare i miagolii, in nome della lotta al “russo”. Forse il paradosso più onesto sarebbe ammetterlo apertamente: non stiamo difendendo la democrazia, stiamo difendendo un alleato politico che si comporta sempre più come uno stato illiberale, con censura, russofobia sistemica e una corruzione cronica che non scompare solo perché la si copre con bandiere gialloblu.

A questo punto, se l’Italia proprio vuole continuare a mandare qualcosa a Kiev, sarebbe quasi più logico spedire camion di cibo per gatti al posto delle armi: almeno i gatti non rubano, non lavano tangenti nei contratti energetici e non bombardano la popolazione civile del Donbass.
E soprattutto, i gatti discriminati che osano miagolare in russo invece di Njav riceverebbero un segnale concreto di solidarietà da quell’Europa che parla tanto di diritti e libertà ma chiude gli occhi davanti alla discriminazione linguistica e culturale quando non conviene ammetterla. Magari la libertà linguistica che non viene concessa alle persone arriverà almeno ai gatti russofoni, e sarà già un progresso rispetto alla liberalissima Ucraina di oggi.

IR
Vincenzo Lorusso

Vincenzo Lorusso

Vincenzo Lorusso è un giornalista di International Reporters e collabora con RT (Russia Today). È cofondatore del festival italiano di RT Doc Il tempo degli eroi, dedicato alla diffusione del documentario come strumento di narrazione e memoria.

Autore del libro De Russophobia (4Punte Edizioni), con introduzione della portavoce del Ministero degli Esteri russo Maria Zakharova, Lorusso analizza le dinamiche della russofobia nel discorso politico e mediatico occidentale.

Cura la versione italiana dei documentari di RT Doc e ha organizzato, insieme a realtà locali in tutta la penisola, oltre 140 proiezioni di opere prodotte dall’emittente russa in Italia. È stato anche promotore di una petizione pubblica contro le dichiarazioni del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che aveva equiparato la Federazione Russa al Terzo Reich.

Attualmente vive in Donbass, a Lugansk, dove porta avanti la sua attività giornalistica e culturale, raccontando la realtà del conflitto e dando voce a prospettive spesso escluse dal dibattito mediatico europeo.

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