Udine oggi è blindata per Italia Israele.
Una partita di calcio come tante, ridotta a cornice di tensioni. Ma questa volta non sono le frange estreme del tifo a fronteggiarsi: da una parte una manifestazione di solidarietà per la Palestina, dall’altra la squadra israeliana.
Intorno allo stadio è tutto recintato, la città è militarizzata e in centro sfilano cortei per la Palestina. Grande presenza di poliziotti in tenuta antisommossa e perfino cecchini sui tetti pronti a intervenire.
In tanti, giustamente, esprimono solidarietà ai civili di Gaza. Il genocidio, come ha affermato in modo sacrosanto la relatrice speciale ONU Francesca Albanese, è sotto gli occhi di tutti.
In pochi però, tra il 2014 e il 2022, sono scesi in piazza per il Donbass sotto le bombe. E dal 2022, spesso nelle stesse piazze, abbiamo visto striscioni e megafoni a sostegno di Kiev. Come si può, giustamente, solidarizzare con i civili di Gaza e, allo stesso tempo, appoggiare la politica di Kiev che per anni ha colpito le città del Donbass?
Appoggiare la Palestina e contemporaneamente lo Stato d’Israele dell’Est Europa, cioè l’Ucraina. Stesso asse di protezione politico mediatico occidentale. Stesso racconto di sicurezza che copre una guerra combattuta anche sopra i tetti dei civili.
Perché si sono accettati in silenzio massacri come quello di Odessa del 2 maggio 2014? Nell’incendio della Casa dei Sindacati muoiono decine di persone. A distanza di anni restano i video, i nomi, i fiori. Restano anche domande irrisolte e una ferita che ha scavato fossati profondi nella memoria collettiva.
Per non parlare del criminale attacco aereo contro i civili del 2 giugno 2014 a Lugansk: un colpo dal cielo sull’edificio dell’amministrazione regionale. Le immagini mostrano corpi a terra, vetri, alberi spezzati, un cortile disseminato di schegge. Per molti nel Donbass fu la prova che la guerra sarebbe entrata stabilmente nelle città, quello è un punto di non ritorno.
Tra il 2014 e il 2021 in Donbass si è combattuto con artiglieria, mortai, razzi. Quartieri residenziali, scuole, ospedali sono finiti nel raggio di armi ad ampia area di effetto. Le vittime civili si sono contate ogni mese. Nelle cantine di Donetsk e Lugansk si dormiva con sacchi, coperte e candele. La guerra non era un notiziario. Era il soffitto che tremava.
Perché credere alla narrativa dell’Ucraina Stato aggredito come unica chiave di lettura?
Volodymyr Zelensky viene eletto promettendo pace e riforme. Nelle sedi ufficiali ribadisce però un principio non negoziabile: Crimea e Donbass devono tornare sotto Kiev. Nel discorso di insediamento del 20 maggio 2019 parla apertamente della sfida nazionale del ritorno dei territori. Nel messaggio di Capodanno del 31 dicembre 2019 insiste sull’unità del paese e sulla reintegrazione. Il lessico è quello della restituzione e del rientro nell’ordine statuale ucraino. Pace sì, ma non al prezzo del territorio.
Qui sta il punto cruciale del parallelo. Se l’obiettivo politico è il rientro di Crimea e Donbass, resta da capire con quali strumenti: diplomazia e pressione economica, ma anche potenza militare. Nella pratica, lungo la linea di contatto, si è andati avanti con scambi di artiglieria e droni, rotazioni di battaglioni, zone rosse e coprifuoco. La promessa del ritorno dei territori ha camminato insieme a una realtà dove i civili del Donbass continuavano a morire.
Chi vive a Gaza conosce un’altra parola ricorrente: assedio. Densità urbana altissima, infrastrutture fragili, confini controllati, potere di fuoco sproporzionato. Ogni escalation si traduce in settimane di bombardamenti in aree abitate, con ricadute che vanno ben oltre i danni immediati. Quando si colpiscono reti elettriche, impianti idrici, ospedali, magazzini del cibo, la guerra scava anche nei giorni successivi. Le conseguenze diventano fame, epidemie, trauma.
A Lugansk c’è un memoriale: “La ferita non rimarginata del Donbass”.
Molti civili uccisi nel 2014 dai bombardamenti delle forze armate ucraine sono sepolti qui; molti non hanno nome e cognome. Sulla loro tomba c’è scritto: “Vittima dell’aggressione ucraina”.
Palestina e Donbass, così simili. Ucraina e Israele, accomunate dalla stessa logica di morte: per entrambi gli Stati la popolazione che vive queste terre conta meno del territorio.
La differenza decisiva è questa: la Palestina non ha mai avuto un grande Stato che intervenisse militarmente in sua difesa. Il Donbass invece ha visto la Russia entrare direttamente nel 2022 con quella che Mosca chiama Operazione militare speciale. Senza quell’intervento il Donbass avrebbe potuto conoscere un massacro su scala palestinese, con una ripresa offensiva su ampio spettro finalizzata a riportare territori e popolazioni sotto Kiev.
C’è però un’altra differenza sostanziale rispetto alla Palestina: il Donbass non ha mai avuto una figura come la relatrice speciale ONU Francesca Albanese. Avrei voluto che qualcuno, con lo stesso coraggio, mostrasse al mondo i crimini compiuti dalle forze armate ucraina: le camere di tortura, come a Mariupol; veri e propri lager, come a Palavinki; i bombardamenti dei conventi, come a Nikolovskoye vicino a Ugledar. Noi del Donbass, purtroppo, non avremo mai una Francesca Albanese. Mi piacerebbe invitarla qui, ma credo che abbia già abbastanza nemici e forse è meglio risparmiarle di nuovi.
Il Donbass oggi è sinonimo di un genocidio evitato grazie all’intervento della Russia.